Ayana, la schiava d’Africa
Assorto nei mie soliti film mentali, tornavo verso casa dopo una serata di cinema e cena a mezzanotte. Neppure l’avevo vista. Notai solamente il semaforo che da giallo diventava orrendamente rosso. Ogni minuto in più di attesa avrebbe aumentato il dolore del risveglio per andare al lavoro la mattina seguente. Il mio bioritmo non è settato per essere operativo dopo sole cinque ore di sonno, in realtà neppure dopo otto. Semplicemente, non carburo se non prima delle undici. Nulla da fare, anche se vado a letto prestissimo, ho bisogno che il sole sia davvero alto in cielo per iniziare a ragionare da persona sana di mente. Rassegnato, rallentai. A quell’incrocio il semaforo dura quanto una quaresima. Tirai svogliato il freno a mano e misi il cambio in folle. Proprio non l’avevo vista. La poca luce del lampione era oscurata da un albero con le foglie grigie di tubi di scappamento piantato proprio all’angolo. Un pezzetto di natura fagocitato dal lerciume della città, una sorta di brutta copia, un surrogato. Radicato in un buco di cemento, senza alcuna possibilità di scappare. Destinato, attimo dopo attimo, a respirare le deiezioni metropolitane del peggior animale terrestre, l’uomo. Senza scampo, senza appello, senza futuro, costretto ad un appestato presente fino alla morte. Mi stava prendendo male. Ricordai tutto il clamore di qualche mese prima, quando un padre dopo una lunga battaglia legale riuscì a togliere sua figlia dal buco di cemento in cui era caduta da anni. Non sono mai riuscito a prendere una posizione precisa sull’argomento ma quell’albero con le foglie malate mi sconvolgeva i pensieri. Cosa aveva fatto di male quel germoglio per meritare il ruolo di albero da marciapiede? Perché non un bosco di alta montagna, perché non una pineta di riviera? Ma soprattutto perché lì! Davvero non l’avevo vista. Poca luce, troppo sonno, troppo cibo, tanta distrazione, molto egocentrismo.
Sua madre supera appena i trent’anni, è già vecchia, non ha sogni, non ha mai sognato, la sua immaginazione non va oltre ciò che le permette la sua condizione
Giuro, non l’avevo vista.
Quella chioma incancrenita non nascondeva solo la luce del lampione. Era un riparo, un ombrello per la pioggia e l’umidità. Un rifugio discreto, una zona d’ombra, un piscitoio all’occorrenza, un appoggio per controllare la suola delle scarpe quando pesti la merda dei cani randagi. Tutto tranne che un albero. Neppure i piccioni vi si avvicinavano. Imbruttito dall’incuria e dall’indifferenza, devastato dal fatto che nessuno riconoscesse la sua natura, la sua identità, perso e solo tra gli estranei. Gli esseri simili tendono a cercarsi e quella sera in cui mi sono fermato al rosso di un semaforo, l’albero era la casa di uno scricciolo nero. Hey man, queste parole mi fecero voltare alla mia destra. Ora la vedevo. Minuta, giovanissima, capelli innaturalmente lisci, palpebre orrendamente rosa perlato, labbra oscenamente rosse, unghie dello stesso colore. Giubbottino in pelle con sotto un top scollato nonostante il freddo di gennaio, jeans aderenti e stivaletti neri borchiati. Si aggrappò alla maniglia della portiera. Sentivo il battito ritmico dello scatto a vuoto della serratura per i suoi ripetuti tentativi di aprire. La mia auto attiva la chiusura centralizzata appena superi i 20 orari. Ero all’interno, blindato, lei fuori che senza invito cercava di entrare. Hey man, ti faccio divertire. Ti piace la fica? Ho bella fica, stretta, man! I vetri chiusi e il sibilo del climatizzatore mi restituivano una voce falsata, lontana, nonostante parlasse attaccata al finestrino. La vidi come l’albero, estranea, abbrutita, folle. Sorrideva, si sforzava di essere ammaliante. Tu non vuoi me? Io poco poco, solo 30. Il bianco dei suoi occhi furoreggiava davanti al mio sguardo. Occhi spalancati, terrorizzati. la sua era una preghiera. Le facevo sicuramente paura, ma niente doveva essere in confronto alla paura per il suo schiavista. Immobile non rispondevo, mentre lei continuava quasi a ridere per contrastare le sicure lacrime che aveva dentro. Aveva forse lavorato poco quella sera. Evidentemente il freddo scoraggiava i clienti. Poca voglia di consumare a chiappe all’aria un po’ di sesso da trenta euro con una ragazzina, preferendo di sicuro moglie, figli e una noiosa e falsa trasmissione domenicale in tv. Alla puttana giovane sotto l’albero ci si poteva pensare la settimana dopo. Dopotutto, una scopata coniugale garantisce la tranquillità ed evita domande scomode.
Veniva a sceglierle periodicamente una donna accompagnata da un autista. Una della sua gente che era andata a vivere in città da diversi anni. Portava sempre i più bei copricapo che avesse mai visto.
Hey man, tu gay?Io bella, bella fica stretta. La cantilena continuava per quella che mi sembrò un’eternità. Più non mi muovevo, più lo scricciolo nero si piegava su se stesso quasi che avesse un improvviso dolore all’addome. Non mollava la maniglia sulla portiera, lo scatto a vuoto proseguiva. Hey man, io poco, trenta, solo trenta. Hey man. Non conosceva nulla della mia lingua. Ai lati di una strada a vendere la sua fica stretta, poche parole per presentare il prodotto. Le uniche che le avevano insegnato. In italiano, probabilmente non conosceva neppure la parola “aiutami”. Una sola parola che non avrebbe mai dovuto imparare. La sua pelle nera adornata di colori sintetici non riusciva a brillare. Spenta come l’albero, in quel tratto di strada l’unico essere vivente che le somigliasse. Schiava in un mondo estraneo, schiava del pregiudizio, schiava di chi passa oltre, schiava di quella donna in Africa, schiava dei suoi stessi sogni, schiava della noia altrui, schiava delle superstizioni, schiava di un mondo che si era impadronito della sua terra. Schiava e vittima del mio muto rifiuto. Semaforo verde, ripartii sapendo che non avrei dormito per niente.