Medium food
Il medium food sarebbe forse la soluzione più onesta e coerente. E non mi riferisco al cibo predetto da un santone. Con medium intendo proprio la traduzione anglo-latina di medio: né veloce (fast) né lento (slow). Pare tuttavia che questo aggettivo all’alimentazione odierna non si possa proprio applicare. Lo sa bene anche Expo Milano 2015, che, nel suo viaggio cultural-gastronomico attraverso 53 Paesi del mondo, ha fatto del binomio fast-slow il suo cavallo di battaglia.
Nutrire il pianeta. Energia per la vita è il sottotitolo dell’esposizione universale che avrà luogo dal prossimo primo maggio fino al 31 ottobre 2015. Nella cittadella appena fuori Milano, già – beffardamente? – definita “polmone L’italiano mangerà italiano anche nel ristorante americano (in Italia) e l’americano mangerà americano anche nel ristorante italiano (in America). Facile, no?
I convitati di pietra saranno però i sovrani della globalizzazione che hanno cavalcato i due decenni a cavallo del terzo millennio. Entrambi rossi, ma assolutamente non comunisti: Mc Donald’s e Coca Cola. Ci saranno anche loro, nonostante ormai non sia più di moda gonfiarsi lo stomaco di bollicine e affondare i denti nei soffici panini imbevuti di maionese. Eppure sono simboli alimentari che hanno segnato la storia.
Il film Goodbye Lenin (2003, Wolfgang Becker) offre fantastici fotogrammi a proposito. Mentre racconta la storia di un’attivista politica della DDR, finita in coma prima del crollo del muro e risvegliatasi dopo l’unificazione della Germania, con i goffi tentativi dei figli di convincerla che il mondo è rimasto socialista come un tempo, il regista mostra un paesaggio fatto di statue e mausolei socialisti che si infrangono contro i feticci occidentali, in primis la pubblicità di Burger King e di Coca Cola.
Ma erano ancora gli anni Novanta, quando entrare in un fast-food ti faceva sentire avanti anni luce, quando il non-luogo era simbolo di apertura mentale e lo standardizzato era democratico. Oggi non è più così. Al Mc Donald’s portiamo i bambini per farli contenti, visto che lì il cibo sembra un giocattolo, con panini uguali a quelli che si vedono nei film, beveroni colorati e l’area con le palline. Ma noi, così bioetici ed ecosostenibili, ci sentiamo in colpa. Perché non siamo come Benedetta Parodi, che cucina e mangia solo cose genuine. E mister Dukan avrebbe un coccolone se ci vedesse mentre afferriamo pacchi e cartoncini ricolmi di untuosi carboidrati. Così speriamo di non incontrare nessuno che conosciamo. I selfie li riserviamo per quando entreremo nel ristorante vegano o fruttariano.
Eppure, nemmeno la biodiversità è così sostenibile. Costa. E tanto. Chi non ha il contadino personale che pianta e raccoglie le rape o la cameriera che cucina i biscotti e il pane in casa dovrà affidarsi ai prodotti del discount. Chi non potrà concedersi i venti o trenta euro per un pasto all’italiana o alla giapponese tornerà nelle cattedrali metropolitane, spendendone cinque per un big mac.
D’altra parte, nemmeno i colossi made in Usa, avvertendo lo stato di crisi, sono rimasti inermi. Adesso anche Mc Donald’s propone menu “nutrizionalmente equilibrati”, utilizzando le materie prime dei Paesi in cui è delocalizzato. E la coca cola è diventata light, zero, argento, nera, senza caffeina. Fa un po’ ridere come cosa. Perché se mai decidessi di mettere piede in un Mc, lo farei per mangiare all’americana. Permettete che, se voglio il parmigiano o la carne di chianina, vado nella bottega dietro casa.
Insomma, la glocalizzazione ha voluto combattere un presunto male – la standardizzazione – con il male stesso – l’omologazione. Che differenza fa avere locali tutti uguali sparsi per il mondo rispetto all’avere locali diversi, che servono però pietanze tutte uguali a seconda dei paesi in cui sono localizzati? Anziché valorizzare le singole culture alimentari (e non), le si ghettizza. L’italiano mangerà italiano anche nel ristorante americano (in Italia) e l’americano mangerà americano anche nel ristorante italiano (in America). Facile, no?
Servirebbe proprio un medium food, inteso come via di mezzo tra il tanto e il poco, il tutto e niente, l’eccesso e la penuria: uno schiaffo agli estremi che diventano stereotipi.