Borgo rotondo (il Vuoto)
Cammino per le strade porticate di un borgo rotondo. Uno spazio circolare delimitato da antiche mura riadattate ad abitazione. Per quanto le mie scarpe incedano sotto le volte di cemento e il tonfo sordo dei miei passi ricordi a me stesso la mia stessa presenza, ritorno sempre allo stesso punto. Lo percorro una volta, due, i passi si fanno svelti, il ritmo ansioso. Cammino come se avessi una meta, come se in quel cerchio ci fosse anima viva, come se qualcosa mi dicesse che prima o poi una porta si aprirà. Una porta o una finestra o un passaggio per altrove.
Ma le case sono disabitate, la gente fuggita. Quindi mi fermo, abbasso la testa e scorgo le mie scarpe. Le osservo piegarsi verso sinistra e sento il corpo assecondarne il movimento. Alzo la testa e guardo intorno, ma vedo soltanto me stesso sotto il portico della casa rossa, sotto quello della casa gialla, sotto quello della casa bianca.
Allora mi siedo su una panchina e mi preoccupo di lasciare spazio di fianco a me, ma nessuno si siede. Non c’è nessuno e non si ode rumore. Non il tubare dei piccioni, non la vita che scorre nelle case, non la voce che vorrei ascoltare, non il mio telefono. Che non suona, non vibra e forse nemmeno prende.
Vuoto. Il mondo è là fuori, da qualche parte. Non qui, non ora. Vuoto. Eppure, penso, in qualche modo si dovrà uscire da questa assurda concentricità architettonica. E allora mi rimetto in moto e ripercorro una, due, tre volte il perimetro del paese, ma non vedo, non capisco, non credo. Vuoto.
Ci fu un tempo in cui le porte erano aperte, i portici colmi di gente, il grande spiazzo costellato di tavolini, sedie. Le bottiglie sopra i tavolini, i sederi sopra le sedie. E grida, risa, schiamazzi, muggiti, trilli di telefoni.
C’eravamo noi e io che ora sono qui su questa panchina con il mento sul petto e le mani nella tasca del giubbotto vi dico, ovunque voi siate, che ancora sento l’odore della nostra gioia e percepisco le nostre speranze, i nostri sogni come fossero fissati sui muri sgretolati di questo borgo rotondo. Il mondo là, noi qua. Chi entrava, chi usciva, chi raccontava. Di cosa dovevamo aver paura?
Ma sono presenze effimere, un attimo e scompaiono. Il sole si è spento su questo desolato borgo. Freddo, umidità. Al mio fianco un posto vuoto.
Dove siete? Perché anche voi siete qui, nessuno se n’è andato. Eppure non ci vediamo, non ci sentiamo. Maledetto vuoto, ci hai deturpato i volti, reso invisibili le anime, neutro l’odore della pelle.
Ma io vi dico, mentre nascondo il viso nel giubbotto e batto i piedi per ricordarmi di essere vivo, già immagino il giorno in cui un grande fuoco arderà al centro dello spiazzo e l’araba fenice risorgerà riportando la vita in questo fottuto borgo rotondo. Allora i nostri visi riprenderanno colore e riconosceremo le nostre anime e via il freddo, l’umidità. Alimenteremo il fuoco con le speranze frustrate, i sogni infranti, la sfortuna e il destino che ci ha portato a questo.
Ci abbracceremo e ci diremo che tutto è finito, le nubi allontanate. Qualcuno piangerà, altri correranno su per le scale delle case e appenderanno lenzuola bianche alle finestre, altri mostreranno dov’era quel maledetto passaggio per il mondo esterno e ci sarà chi dirà ma pensa te e altri ancora si sorprenderanno di non averci pensato.
Ora però non vi vedo. Percepisco le vostre angosce, combatto la mia. Maledetto vuoto. Una scintilla ti seppellirà.