E guardo il mondo da un oblò…
E guardo il mondo da un oblò, mi annoio un po’…. *
Ogni tanto sento queste parole umane messe in musica. Vengono da fuori, oltrepassano l’acqua e mi arrivano nitide. Mi creano non poche domande. Per esempio, come può dire un umano che a guardare da un oblò ci si annoia? Io lo faccio da una vita. Guardo da un oblò quello che lui combina nel suo mondo. Ci sono costretta da quando ero una piccola pesciolina che si era appena colorata di rosso arancione. Da tanto di quel tempo che non so dire, perché qui, in questa boccia di vetro, non è facile misurarlo, il tempo.
Sono nata in una grande vasca dove tanti pesciolini come me nuotavano spensierati. Sono convinta che insieme formassimo una scia coloratissima e assai bella da vedere, sia per gli occhi umani che per quelli acquatici. Forse perché eravamo troppo belli, o perché quello era il nostro destino, non lo so, presto ci hanno acciuffato con un retino e portati in giro in vaschette un po’ più piccole.
La nostra destinazione erano i luna park. Ho capito che si chiamavano così quei posti dove la confusione era talmente tanta che l’acqua non bastava a isolarci. Le onde sonore della musica sparata a tutto volume perforavano la poca acqua a nostra disposizione. Forse è qui che ho cominciato a sentire quelle parole riguardo a un oblò, non so.
Non parliamo poi delle luci, c’era da impazzire! Non si poteva mai risposare; quando fuori doveva essere buio l’oscurità era lacerata da luci colorate, intermittenti, da tachicardia!
Avevo paura, lo ammetto.
Di giorno c’era un po’ più di tranquillità, ma non sempre.
A poco a poco amici e fratelli si sono dispersi. Qualcuno è morto presto. Non ha retto agli sbalzi di luci, rumori, trasbordi e viaggi avventurosi. Qualcuno semplicemente spariva.
Io sono una pesciolina forte, anche se ancora non lo sapevo. Avevo paura, ma riuscivo a domare il ritmo impazzito del cuore, boccheggiavo, non potendo emettere alcun suono, e resistevo. Fino a che qualcuno mi ha vinto.
Ecco, era così che si spariva. Qualche umano, pare per divertimento, ma a me sembra uno strano modo di divertirsi, lanciava delle palline nelle boccette che ci conteneva. Se le centrava, vinceva la sua preda. Cioè noi, poveri piccoli, rossi per natura, ma anche un po’ dal terrore.
Cosa avrebbe fatto di noi l’umano grande e grosso che dall’interno delle boccettine ci sembrava immenso e imperscrutabile?
Ho cominciato a chiedermelo quando un umano, che sembrava meno grosso di altri, forse solo più giovane, mi ha portato via.
Mi avrebbe mangiato?
Circolava la voce fra noi piccoli che gli umani mangiano i pesci. Non potevamo crederci. La prospettiva era così terrificante da segnarci per sempre all’insegna della paura. Tempo dopo, sempre ascoltando quanto proveniva dall’esterno, nel caso specifico pare fosse una fiaba, ho ravveduto delle similitudini a questa diceria in quello che gli umani adulti raccontano ai bambini un po’ discoli: verrà un orco cattivo e ti mangerà se non fai il bravo.
Ognuno ha i suoi orchi. Per noi pesci rossi era l’uomo.
Ognuno ha i suoi orchi. Per noi pesci rossi era l’uomo.
Con tanta ansia, con tanta inquietudine, ma pronta a combattere per come potevo, mi apprestai ad incontrare l’ignoto.
In realtà incontrai l’acqua tiepida e lo spazio ristretto di un contenitore circolare, non troppo più grande da quelli che mi contenevano quando viaggiavo fra i luna park. Una boccia tonda. Un oblò.
Io sì ho guardato il mondo da un oblò, non l’umano che canta queste parole. Era un mondo circoscritto, limitato, che presto è diventato il mio universo intero.
Non appena mi sono resa conto che nessuno ambiva a saziarsi del mio corpicino rosso ho respirato una boccata di ossigeno, cioè di acqua e ho cominciato a guardare fuori dall’oblò.
Mi ci è voluto un po’, ma alla fine ho preso a fidarmi degli umani. Non mi sono mai annoiata, no. È divertente guardarli. Fanno cose strane, che ancora non capisco. Altre cose le fanno per un po’, poi smettono. Oppure se ne inventano di nuove.
Per dire, i primi tempi mettevano il loro enorme muso vicinissimo al mio, al di là del vetro che ci separava. Non so se le dimensioni fossero ingigantite dal materiale che conteneva la mia dimora, ma che angoscia vedere quei giganti! Correvo impazzita lungo la tonda parete senza trovare un rifugio per salvarmi, credevo volessero mangiarmi!
Poi ho capito che non era così, che volevano solo prendere un po’ di confidenza con me. E allora non sono scappata più. Anche perché, dove avrei potuto andare?
E dopo un po’ hanno smesso di guardarmi così da vicino.
Qualche volta mettevano dentro una parte del loro corpo, un dito. Muovevano l’acqua, creavano cerchi concentrici come per attirare la mia attenzione. Non capivano che io sono sempre stata sul chi va là con loro, che non occorreva si facessero notare… chi poteva ignorarli, grandi grossi e rumorosi com’erano?
Era davvero impossibile comunicare con loro. Facevano di tutto per atterrirmi! Hanno perfino tentato di ammazzarmi mettendo nell’acqua tanto di quel cibo da farmi fare quasi indigestione. Che ne sapevo io che dovevo andarci piano? Nel dubbio che ci fosse il rischio di carestia, io ho mangiato tutto quello che potevo… D’altra parte, che ne sapevano loro che a me basta poco, magari un bocconcino speciale più che una grande quantità?
A forza di sbagliare ci siamo capiti.
L’unica cosa che non hanno compreso è che io sono una femmina.
L’unica cosa che non hanno compreso è che io sono una femmina.
Ad un certo punto hanno tentato di darmi compagnia. Ma mi hanno messo un’altra femmina accanto. Poverina, mi stava anche simpatica, ma lei non ha avuto la mia forza e non ha accettato la mia compagnia. Non è mai riuscita a tranquillizzarsi, viveva in uno stato di tensione continuo, il poco spazio che condividevamo l’angustiava e alla fine, dopo poco, è morta… d’indigestione. Pensava che mangiare molto le avrebbe permesso di sopravvivere, a spese mie, non mi ha ascoltato.
È stato triste vedere il suo corpo galleggiare in superficie. Mi ha fatto sentire un po’ sola.
Per un po’ ho sperato che arrivasse un compagno maschio, almeno avremmo trovato il modo di popolare la boccia con tanti piccoli avannotti. Ma non è andata così, gli umani ci hanno rinunciato, costringendo anche me a rinunciare alla compagnia.
Ma non mi sono annoiata. Guardare il mondo là fuori da questo oblò alla fine è stato emozionante, un modo di impegnare il tempo, ciò che mi ha permesso di macinare giorni su giorni fino a perderne il conto.
Ormai sono gli umani i miei compagni di vita. Ne conosco così bene le abitudini che potrei anticipare ogni movimento. So quando stanno per preparare il cibo, quando fanno ordine, quando alzano la loro voce per litigare, quando l’abbassano per dirsi cose dolci o quando… cantano. A volte gioco con loro saltando fuori dall’acqua. Allora tocca a loro spaventarsi, mentre io mi diverto.
No, non mi capiscono. Hanno imparato solo a darmi da mangiare se mi vedono aprire la bocca. Meglio che niente.
Se poi imparassero anche a dosare meglio la temperatura dell’acqua quando me la cambiano sarebbe una bella cosa, ma temo che se non lo hanno ancora compreso non ce la faranno più, e io dovrò continuare a fare docce fredde.
Sarà per questi sbalzi di temperature che ho fatto le squame bianche… o forse per il semplice passare del tempo. Vedo che anche gli umani imbiancano, in qualche modo.
Ma che sia il tempo o le temperature, sta di fatto che il mio bel colorito rosso è svanito. Sono diventata di un colore così bianco smorto da farmi sentire nuda. E sono ingrassata.
Sì, il tempo è passato, sono invecchiata semplicemente guardando questo spicchio di mondo dal mio oblò. Che poi ad un certo punto è diventato pure rettangolare.
Ma lo ripeto, con questi umani non ci si annoia mai. Diteglielo, al tizio che canta, che venga a guardarlo da qui, il suo mondo. Ne scoprirebbe delle belle.
(* da “Luna” di Gianni Togni)