Gatto in fiera
Ormai dovrei essere abituato a questo genere di cose. Un po’ di esperienza me la sono fatta, sono un gatto da fiera esperto, posso permettermi una certa serenità, però vi assicuro: potendo, farei le cose a modo mio.
Invece anche stavolta mi ritrovo in gabbia, in compagnia di altri miei simili, diversi da me solo perché appartenenti a razze di tutti i tipi. Ma sempre gatti siamo e ciascuno di noi è confinato in una gabbia che nessuno ama, tutt’al più sopporta. Sapendo, o almeno noi gatti veterani lo sappiamo, che una esposizione di felini come questa dura al massimo un paio di giorni. Poi si ritorna a casa, dove in genere c’è un po’ più di libertà. I giovani invece sono un po’ spaesati, non capiscono il cambiamento di abitudini, non tollerano i confini limitati dalle sbarre di queste gabbie, miagolano, piangono un po’ e si intimidiscono a vedere tutti quegli umani che passano.
Io, che ho quattro anni e di mostre come queste ne ho fatte tante, faccio del mio meglio per spiegare ai novellini come funziona e come si fa a superare indenni questo trauma che ci è toccato in sorte.
Mi hanno chiamato Leone, sono nato da due genitori di sangue blu che hanno nei geni il respiro delle foreste norvegesi, e difatti così si chiama la nostra razza. Anche se in Norvegia non ci siamo mai stati. La mia nascita e quella dei miei fratelli è stata programmata a tavolino dagli umani che ci accudiscono. Mamma e papà non è che si siano innamorati così per caso: li hanno messi insieme in una stanzetta e si sa, non potendo scegliere, si sono presi. E così sono qua. I miei fratelli li ho persi presto di vista, hanno trovato altre sistemazioni. Io sono rimasto. Perché, modestamente, sono molto bello. Sono grande, peso otto chili, ho una pelliccia così folta e lunga che potrebbe sfidare il gelo del Paese che mi dà il nome, ed è pure bianca come la neve, con qualche striatura grigia, tipo quelle delle tigri. Sulla testa il pelo mi cresce come la criniera del leone, appunto, per cui il nome preso in prestito dal cugino mi calza a pennello. Insomma, sono un concentrato di felinità. Sono così bello da poter essere messo in mostra in situazioni come questa, e ho pure vinto dei premi senza fare praticamente niente. Solo portare pazienza. Ché l’umano è una bestia strana, bisogna cercare di capirla.
Ché l’umano è una bestia strana, bisogna cercare di capirla.
Io glielo dico, ai giovani. Portate pazienza, passa presto, ma non è facile, lo capisco. A loro la gabbia sta stretta e non si fanno incantare dai giochini che l’umano ci mette dentro. La libertà è un’altra cosa. Alla fine, sfiniti, si mettono a pisolare. Noi gatti riusciamo a dormire ovunque, per fortuna, anche nella cassetta della sabbia, che poco elegantemente ci mettono accanto alla ciotola delle crocchette.
Un po’ alla volta loro impareranno a fare come me. Acquisire il massimo distacco e farsi adorare con indifferenza. Ignorare le moine, o accettarle benevolmente, ma non concedere nulla. Guardarsi intorno con maestà tutta felina, ma non fissare lo sguardo su nessuno, perché il nostro sguardo deve apparire soprannaturale, andare oltre il conosciuto: dentro i nostri occhi, azzurri, gialli o verdi che siano, gli umani devono immaginare cose, senza avere certezze.
dentro i nostri occhi, azzurri, gialli o verdi che siano, gli umani devono immaginare cose, senza avere certezze.
E poi: fare in modo di passare il tempo per lo più sonnecchiando, ma con dignità regale. E quando apriamo questi nostri occhi osservare senza farsi notare la folla degli umani che ci passa accanto.
Col tempo ci si fa l’abitudine alla confusione e si finisce perfino per trovare qua e là motivo di divertimento, che naturalmente bisogna ben guardarsi dal dimostrare. L’umano infatti è un essere strano. Tanto per dire, non si capisce che gusto ci trovi a radunare tanti gatti in una volta sola e tenerli poi in gabbia. Ma anche quei bipedi che fanno la fila per ammirarci farebbero ridere, se noi gatti sapessimo ridere. È tutto un oh, ah, e cicci cicci, e micio micio, e dita dentro le sbarre per cercare di toccarci, e lampi di luce per fissare la nostra immagine in scatolette. Ci sono quelli esaltati e quelli estasiati, che sembra non abbiano mai visto gatti.
Ma posso anche capirli, perché in genere in queste mostre raccolgono tutti i tipi più bizzarri della specie felina.
Poveracci, gli amici miei. Uno come Omar, il mio amico senza pelo, sì, uno Sphinx, è tra quelli più presi di mira, con commenti che vanno tra il ribrezzo e il meravigliato. Lui è un po’ complessato per essere così nudo; anche se non è colpa sua si vergogna un po’ e forse per compensare questa mancanza è molto affettuoso con gli umani. Però essere additato così come un fenomeno da baraccone è fastidioso anche per lui. Mi ha chiesto perfino un po’ della mia pelliccia in prestito per coprirsi dagli sguardi di tutte queste creature fastidiose. Se potessi gliene darei, di pelo. Ma non so come fare: il mio umano ogni volta che mi spazzola ne butta via un sacco che invece potrebbe essere utile a Omar.
Vedo che molto successo hanno anche i Persiani, che chissà cosa ci sarà di bello in quel naso schiacciato, e i sacri di Birmania (sacri a chi? Non l’ho mai capito) che hanno gli occhi blu; in effetti ho visto una gattina deliziosa, bianca come la panna con uno sguardo da far girare la testa anche a me.
E poi ci sono i gatti del Maine (anche loro non sono mai stati in America, s’intende), che sono più grandi e grossi persino di me. Ammetto che fanno la loro figura. Sono tipi in gamba.
Ecco, la gente fa mille smancerie e va in un deliquio ridicolo, quando noi vorremmo solo essere lasciati in pace. Vabbè, magari qualche coccola ci sta, chi dice di no.
Devo dire che personalmente non mi dispiace quando il mio umano mi prende in braccio, mi spazzola e poi mi mostra con orgoglio ai giudici e a tutti gli altri. Mi piace essere ammirato, ma guai a darlo a vedere. Dignità e distacco, prima di tutto. È la legge dei gatti. Solo dopo posso accettare qualche crocchetta in premio, oltre alle carezze del mio umano.
Ma in tutto questo a me piacerebbe che se proprio dobbiamo essere mostrati come trofei, almeno si faccia in altro modo. Io vorrei che nelle gabbie ci mettessero gli umani. Che tocchi a loro essere rinchiusi là dentro, e da lì ammirarci mentre noi scorrazziamo liberi e felici, rincorriamo topi, lucertole e giochini, ci arrampichiamo ovunque in questo capannone, e gli facciamo mao mao con la zampa dentro le sbarre per lasciargli un po’ del nostro pelo addosso (tranne Omar). Ma le fusa no, quelle mica si fanno a comando.
E infine mi piacerebbe un po’ di privacy mentre scegliamo da soli la gattina o il maschietto che più ci piace, al di là delle razze e delle convenzioni.
Perché, tanto per dire, ma che resti fra noi, quella gattina con gli occhi blu è veramente una favola…