Quando al cinema ho incontrato Lucio Dalla
quel giorno quasi non mi sembrava vero: solo in sala, come se il film fosse stato girato per me.
La porta si è aperta e nella penombra della sala un uomo mi si è seduto all’incirca davanti, salutando con il cenno della mano. Avrei dovuto condividere con quel tizio una sala da cento posti, perché evidentemente quel film non era stato fatto solo per me. Un tipo piuttosto basso con un cappellino verde kaki in testa in piena estate a Merano nessuno lo aveva mai visto.
Ricordo solo che il film iniziava con un lunghissimo e insignificante monologo, per fortuna, e per fortuna perché proprio dentro quella noia riconobbi la voce di quel tipo strano con il berretto verde asparago.
Quante parole e quante parole e quante parole… disse più o meno, girandosi verso di me con un ghigno divertito. Senza dubbio, doveva essere Lucio Dalla. Era il periodo di Attenti al Lupo e Dalla frequentava regolarmente una notissima clinica di Merano. Quel pomeriggio avevamo avuto la stessa identica idea.
Ero ancora un ragazzino, all’epoca, ma la musica di Dalla mi piaceva, come la musica italiana piaceva a quasi tutti i ragazzi del tempo. La musica, allora, era quella cosa che prima ascoltavi in radio e poi compravi in quei luoghi che si chiamavano negozi di musica, e te la portavi a casa su cassette, dischi e se te lo potevi permettere, compact disc.
Lucio aveva già scritto molte delle sue più belle canzoni, anche se io lo ricordavo per l’ossessivo e fastidioso ritornello de Il Motore del 2000. Ragazzo, il film è deludente, siamo gli unici cretini ad averci creduto, disse senza abbassare di una virgola il volume della voce. Gli risposi non so cosa, ma a bassa voce, e per questo venni ripreso. Siamo solo noi e siccome sono io ad avere iniziato il dialogo, perché parli sottovoce? Chissà cosa avrò risposto, non ricordo.
Quegli anni avevo i capelli ricci e gonfi come un pallone aerostatico: erano il mio scudo naturale verso il mondo, perché bastava abbassare la testa che il mio viso sarebbe scomparso dalla faccia della terra; e lo feci.
Lucio lo notò e credo si fece una risata, ma non smise di dire non so cosa. Ogni cinque minuti si girava e commentava divertito la pochezza di quel film. Io rispondevo con i pochissimi strumenti che avevo allora, ma quelle pause mi permisero di raccogliere un poco di coraggio e superare l’imbarazzo del momento. Verso la fine del film, che non avevo mai iniziato a seguire, immerso nei miei pensieri alla ricerca di tutte le canzoni che quel tipo basso col cappellino kaki aveva scritto, Lucio mi disse che sarebbe stata una buona idea rimanere in sala e riguardare quel capolavoro. Fu una ironia che non colsi, infatti, risposi che avremmo dovuto ripagare il biglietto. Sui titoli di coda Lucio sprecò un esageratissimo applauso che l’operatore alla macchina deve avere scambiato per un improbabile pienone in sala.
Lucio mi disse che sarebbe stata una buona idea rimanere in sala e riguardare quel capolavoro. Fu una ironia che non colsi.
Ma quel giorno andò così, e accompagnai Lucio fino al suo Hotel, ascoltando un monologo, quello sì che valeva la pena, sulla musica, sulla bellezza della vita e sul valore della mia gioventù. Ci lasciammo davanti al cancello dell’Hotel e Lucio mi salutò dicendomi di non gettare nemmeno un giorno della tua vita, perché non puoi mai sapere quello che il giorno dopo verrà.
Sono corso a casa, alla ricerca delle musicassette di Lucio Dalla che sapevo dovevamo avere da qualche parte, ma ho trovato solo quel maledetto Motore del 2000.