Il Fiuto e la Memoria
Umido. L’odore che sento è di umido, di rugiada pluviale, di silenzio ancora bagnato dall’ultimo temporale che si allontana. Quest’odore di umido è forte, acre, lo si sente sulla pelle, nell’aria d’intorno. In qualche modo è un odore anche romantico, selvaggio, che rende più facile immaginarsi l’infinito che si percepisce solo quando si decide di perdere la bussola e i punti di riferimento, di tuffarsi a braccia aperte verso territori sconosciuti.
Il pugno umido che mi massaggia la pancia è la prima cosa che ricordo dell’Amazzonia, complice il fatto che mi trovo qui durante la stagione delle piogge. Le gocce, grandi come granate dal cielo, scrosciano sul verde degli alberi e sulla mia testa emettendo dei boati sinistri, dolci, che sembrano provenire tanto dal cielo e dalle profondità della foresta quanto dal mio animo inquieto. Questo manto bagnato è destabilizzante; non sembra neppure di essere ancora nella stessa dimensione in cui ci si trovava prima di sedersi su quella piroga, prima di lasciare la civiltà urbana fatta di polvere, baracche e mercati del pesce, prima di entrare nell’armonia infernale che l’Amazzonia bisbiglia nelle orecchie di chiunque venga a farle visita, che sia per un motivo o per un altro.
Ci sono posti, al mondo, che emanano un odore particolare, pungente, che si ritrova solo in quei determinati luoghi e, se si affina bene l’olfatto, vi rimangono intrappolati dentro come lucciole in un barattolo, pronti a ritornare in vampate, in flash di memoria, in aromi vivaci che si impregnano su tutto il naso.
Il terzo mondo in questo è una miniera infinita di odori. Sarà perché l’aria è meno sovraccaricata dal sudore e dalle parole umane, o perché l’ambiente circostante lascia più spazio per respirare, ma quello che il naso sente in continenti come l’Africa o il Sudamerica non è descrivibile a parole. E’ come una fragranza agrodolce, che profuma di caldo e familiare, anche se è la prima volta che la si sente. Penetra nella pelle ammorbidendola, spolverandoci sopra un velo di zucchero, impastato con la stessa terra ruvida e a grumi su cui gli uomini di queste parti camminano da sempre.
La prima volta che ho sentito quest’odore, che da allora associo alle atmosfere esotiche del terzo mondo, è stato non appena arrivato in Mali, quando andai a visitare il mercato di Djenné.
Ora, è vero che tutti i mercati hanno un loro odore specifico (ci si potrebbe scrivere un articolo a parte), ma non come quello di Djenné. Laggiù gli odori del pesce, delle spezie, delle carni e frutti non sono solo mescolati tra loro come in un qualsiasi mercato, ma è come se si amalgamassero insieme grazie ad un collant di fondo. Il collant è la gigantesca moschea di fango, la più grande del mondo mai costruita con questa tecnica. La moschea sovrasta il mercato come un guardiano silenzioso, e ne diventa parte integrante, rendendo l’odore delle mercanzie più crudo, intenso, vicino all’asprezza della vita dei mercanti sempre precaria, sempre sull’orlo dell’estremo. Le tinte colorate delle donne, la salinità dei pesci sul banco, e il fango cristallizzato della moschea, si fanno veicolo dello strato agrodolce sbattuto dall’aria della Savana, trasformando una visita al mercato in un continuo concerto di odori, e piste, e scie da seguire perdendosi tra la folla.
Quell’odore agrodolce così caldo e rovente l’ho ritrovato nella città di Iquitos in Perù.
Anche lì la stessa scintilla amara inzuccherata, prodotta dalle merci, dai motori inquinanti delle moto, dalla ghiaia polverizzata nelle buche scavate dalle ruote delle macchine. Ad Iquitos, l’odore è percepibile dappertutto: dai mercati alle case, dagli alberghi ai locali sul fiume. Alle volte profuma quasi di incenso, specialmente quando si scende verso la parte bassa della città e il mercato galleggiante di Belèn; altre, invece, è come se si modernizzasse di colpo, divenendo più distinto, elegante, ordinato, come se fosse stato venduto dai coloni d’oltremare agli ignari indigeni del posto più di cinquecento anni fa.
Abbandonando Iquitos e inoltrandosi nella giungla, l’odore agrodolce non sparisce, ma si tinge di una nota in più: quella dell’umido. Le foglie, gli alberi e gli animali, tutti vi si muovono dentro come fossero parti della fragranza, come se la pioggia, al suo passaggio, infarcisse anche loro insieme alla foresta, facendo risaltare il tutto in un’esalazione continua e ininterrotta, un effluvio a metà tra l’acqua sgocciolante e il legno marcito delle palafitte dei villaggi. Il profumo è per me un eccesso di pensieri, immagini ed emozioni, che mi bruciano dentro e, Ci sono posti, al mondo, che emanano un odore particolare, pungente, che si ritrova solo in quei determinati luoghi e, se si affina bene l’olfatto, vi rimangono intrappolati dentro come lucciole in un barattolo, pronti a ritornare in vampate, in flash di memoria, in aromi vivaci che si impregnano su tutto il naso.
Forse che di questo delirio, di cui comincio seriamente ad avere paura, sia responsabile il succo della giungla (Ayahuasca) che mi ritrovo a consumare per via del mio lavoro di campo? No… per quanto allucinante e spinta sia questa esperienza non credo che da sola possa essere in grado di generare tutta questa confusione e inquietudine nell’anima. Forse la risposta è da cercare in esperienze di altre persone che si sono trovate a contatto con il sogno-incubo della foresta. Come diceva l’etnologa Anna Kovasna la foresta non mostra solo la sua propria natura, ma anche quella di chi la visita, la rende manifesta, cosciente del ruolo che ricopre nel ciclo di vita-morte e rinascita. In questo viaggio, oscuro e difficile, si passa dal sentire gioia e libertà infinita, al vivere i più grossi drammi che la propria psiche può conoscere.
Quindi no, il succo della giungla non c’entra nulla, e in effetti non ne ho bevuto così tanto. Ma una cosa l’ho fatta, ed è quella che ritengo responsabile di questo oscillare di umori così repentino: ho fatto visita al profondo e pulsante cuore del nostro pianeta, che è lo stesso che batte in ciascuno di noi.