Cara mamma Africa
Qualcuno s’è scordato da dove proviene, seppur gli basterebbe un piccolo sforzo per ricordare di avere delle scimmie per antenati. Scimmie a cui, a proposito, va tutto il mio rispetto per essere scampate a questo disastro che chiamiamo evoluzione che presto ci porterà a finire di ammazzarci l’uno con l’altro, se non peggio alla distruzione del pianeta.
Sul pianeta mi sento più tranquillo dopo aver sentito George Carlin in uno dei suoi sprezzanti monologhi, in cui fa notare che il nostro pianeta può vantare di essere qui da quattro miliardi e mezzo di anni ed essere sopravvissuto praticamente a tutti i peggiori disastri immaginabili. Uno di quei monologhi forti, provocatori, che anche per questo sono da riascoltare di tanto in tanto:
Il nostro è ormai un mondo distratto e la nostra memoria, come dicevo, è diventata piuttosto breve; anzi: la nostra memoria ha abbandonato la nostra testa, e ora abita negli hard disk, nelle schede SD e nei file di backup. Ma questo, cara mamma Africa, è un altro discorso. Ti chiamo mamma perché è sulla tua terra rossa che ha fatto la sua prima comparsa l’essere umano, anche se qualcuno l’ha dimenticato.
E pare che qualcuno abbia dimenticato anche quello che ha subito il tuo popolo (anzi, i tuoi popoli), vale a dire il peggio di cui sia capace l’uomo: uccidere, razziare, stuprare, schiavizzare, deportare, seviziare, umiliare. Tra il milleottocento e la fine della seconda guerra mondiale un intero continente è stato assoggettato a colpi di fucile al potere di quelli che erano gli imperi europei. Ai popoli africani è stato tolto il controllo sul proprio territorio e sulle proprie risorse. Un territorio ricco di miniere d’oro e diamanti che oggi patisce la fame e la sete, infiammato da decine tra piccoli conflitti e vere e proprie guerre, un territorio che non ha modo di istruire e di curare in modo adeguato le persone che lo popolano.
Da questo, oltre che dalle nuove minacce da oriente che negli ultimi mesi stanno ulteriormente peggiorando la situazione, tentano di fuggire ogni giorno centinaia, migliaia di persone. Per farlo viaggiano in condizioni disumane, rischiando di morire di freddo, di stenti, o di essere buttati giù in mare dagli scafisti quando si rendono conto di averne caricati talmente tanti che l’imbarcazione potrebbe affondare. Ci sono donne incinte, bambini, ragazzi. Molti di loro finiscono cadaveri non lontano dalle nostre coste. Numeri su un registro, questo è ciò che resta di loro.
Questo per me è inaccettabile. È inaccettabile che quel magnifico specchio d’acqua salata che è il Mar Mediterraneo diventi sempre più la linea di confine tra la speranza e la disperazione, una striscia che separa un mondo vivo da un mondo morto. Soprattutto quando sei tu, mamma Africa, ad aver insegnato al mondo cosa voglia dire la vitalità, espressa nella potenza del ritmo e della danza, nel senso di magia evocato dai rituali e nei festeggiamenti che durano per giorni e notti intere.
Soprattutto hai mostrato loro che si può avere un’esistenza ricca nella povertà. Allora qual’è il mondo vivo e quale il mondo morto? Soprattutto quando sei tu, mamma Africa, ad aver insegnato al mondo cosa voglia dire la vitalità, espressa nella potenza del ritmo e della danza, nel senso di magia evocato dai rituali e nei festeggiamenti che durano per giorni e notti intere.
Di tutto questo, cara mamma Africa, io mi vergogno, e ti chiedo scusa. Aiutiamoli a casa loro, dicono. Sì, ma intanto non lasciamoli morire a casa nostra.