Jeep Renegade, Guerrilla urbana
Davanti al musone alto e massiccio della mia Jeep Renegade il cielo appare colore del fango, denso, vischioso. Si respira aria pesante, quasi acquosa. La città sembra diversa sotto questa cappa marrone. Tutto è più severo, sinistro, anche il pacioso edicolante all’angolo mi pare abbia un ghigno strano sulla faccia. Oggi c’è una calma imperfetta per strada. Sembra che tutto si muova a scatti, in totale silenzio ma con un ritmo nervoso, artificiale. In questo posto ci si parla con gli sguardi, anche in mezzo al traffico, ci osserviamo l’un l’altro, e sicuramente un’auto come la mia, una vera novità su questo asfalto, mi aspettavo non passasse inosservata. Ma tutti sembrano avere fretta di raggiungere una meta, un luogo, sembra quasi che scappino. Pare non ci sia tempo né voglia per i soliti cazzeggi urbani. Ho la sensazione che mi stia sfuggendo qualcosa, davvero non capisco.
Aumento il volume per coprire l’assenza umana assordante fuori dall’abitacolo. Habanera deve entrarmi dai timpani fino a riempirmi polmoni fegato, stomaco e cervello
Premo la frizione e la Renegade riprende vita. Schizza veloce e le sei marce del cambio, morbido come un filetto ben frollato, mi facilitano il compito. Pioviggina, ma la Baby Jeep non si scompone nè per i sanpietrini nè per le rotaie del tram. La sua trazione integrale le permette sempre una presa ottimale. Mi sto lasciando prendere da quest’atmosfera artificiale. Ho la sensazione che anch’io scappi da qualcosa. Evito la voragine scavata dalla pioggia dei giorni scorsi con una sterzata violenta, senza rallentare, come se qualcuno mi seguisse attaccato al portatarga. Mi rendo conto che non so neppure dove sto andando. La chiavetta da trentadue giga inserita in plancia continua a rimandarmi la voce della divina; sono ipnotizzato da tanta bravura. Viaggio ascoltandola a un volume inimmaginabile che mi carica di adrenalina. I violini mi tagliano l’udito, i suoi acuti mi curano le ferite.
Dagli enormi specchietti retrovisori esterni vedo due veicoli avvicinarsi, uno per lato. Sembrano moto, ma non lo sono. Al posto degli pneumatici due sfere argentate. Mi si affiancano come se volessero scortarmi. Le visiere dei caschi sono a specchio; non riesco a cogliere lo sguardo che c’è sotto, le intenzioni. Mi fissano per un po’ e scappano via. Inizio a tendermi come una corda attaccata a una bitta. L’umidità appanna i vetri, sparo a palla l’impianto del climatizzatore, in un baleno torno a vedere tutto chiaro.
Poche centinaia di metri e ritrovo i due centauri. I loro strani mezzi messi di traverso, loro due in piedi a chiudere il passaggio. Fanno paura, non hanno occhi, solo due piccoli schermi su cui si muovono segni che non so decifrare e che vanno velocemente da sinistra verso destra e viceversa. Forse è un loro speciale modo di parlare. Pinzo sui freni e la mia Renegade si blocca senza scodare, perfetta direi. Sterzo a sinistra e in un nanosecondo scavalco lo spartitraffico. La città sembra vuota di esseri umani. Vedo cyborg ovunque. La luce è sempre più marrone. I due mi stanno dietro, non posso che spingermi verso la periferia. Il generoso motore mi viene in soccorso. Digerisce ogni mia sollecitazione sull’acceleratore. Il contagiri si impenna, lo stesso fa il tachimetro.
Avverto uno strano ronzio, come un uccello che vola raso sul tetto. È un drone. Sono proprio io al centro delle loro attenzioni. Ma cosa sta succedendo stamattina? Sono una scheggia nera che fila dritto, mi incuneo tra incroci e auto abbandonate. In fondo allo stradone c’è la rampa per entrare in autostrada. Punto da quella parte, ormai sono a velocità folle. Nessun problema, la mia Jeep mi asseconda. Rimane pur sempre la discendente della mitica Willys del periodo bellico, un po’ di guerrilla urbana non la scalfisce neppure, è nata per questo.
Le finestre della fabbrica abbandonata sulla mia destra sono letteralmente esplose. Meglio rimettere in moto e togliersi di torno. Evidentemente il rilevamento della mia posizione attraverso lo spessore del cemento è impreciso, ma sono certo che affineranno il tiro
Attivo il telefono di bordo, nulla, nessun segnale, ogni contatto con un mondo normale mi è precluso. Costretto in questa realtà parallela che non comprendo, che mi è del tutto estranea e che non riesco a capire da dove sia piombata. Immagino che la strada continui per qualche chilometro protetta dall’arteria sovrastante, ma prima o poi dovrò uscire di nuovo allo scoperto. Non riesco neppure a terminare la riflessione che una grandine di vetro mi investe sulla fiancata. Le finestre della fabbrica abbandonata sulla mia destra sono letteralmente esplose. Meglio rimettere in moto e togliersi di torno. Evidentemente il rilevamento della mia posizione attraverso lo spessore del cemento è impreciso, ma sono certo che affineranno il tiro.
Riporto la Jeep in carreggiata, allungo lo sguardo oltre ogni pilone, a questo punto anche un cane randagio potrebbe essere quello che non sembra. Il cattivo livellamento del manto stradale ha creato pozzanghere enormi, le attraverso senza curarmene, ho con me un’ottima compagna di avventure. La notevole altezza da terra mi rassicura.
Eccoli di nuovo, li rivedo dal lunotto. Una fiammata parte da uno di loro. Non posso che evitarla facendo slalom lungo il percorso. Si avvicinano paurosamente, decido di rallentare rilasciando il gas e giocando di scalata in modo che non si accendano gli stop. La protezione del cavalcavia è finita, davanti ho un enorme piazzale vuoto. Posso solo giocare di agilità. Mi affiancano, inchiodo, proseguono in avanti. Anche il drone mi ha rintracciato, vola su di me come un rapace. Il motore ruggisce inferocito ad ogni cambio di marcia.
Mi spingo alla fine dello slargo, inverto ad U infrangendo ogni legge della forza centrifuga. Riparto a razzo verso il ponte dell’autostrada, mi seguono uno per lato, mi infilo tra due colonne di sostegno, si stringono anche loro con me pur di non lasciarmi andare. Gli enormi pneumatici sferici non trovano spazio, impattano con la superficie ruvida, i motociclisti saltano in aria come due manichini.
Il rapace continua a starmi attaccato. Si è infilato con me sotto l’autostrada. Devo farlo sbattere da qualche parte. Sto guidando a ritroso, verso il punto da dove sono arrivato. Lascio l’asfalto e porto l’auto sullo sterrato, per lei sarà solo solletico, anche se premo forte col piede destro. Divoro metro dopo metro sotto la rampa che piano piano si abbassa sempre più fino a toccare terra. Mi piovono scintille sul parabrezza, il condor maledetto avrà già urtato da qualche parte. Ecco, ci siamo, il mio soffitto di cemento tra poco toccherà terra. Scalo rabbiosamente e salto di nuovo in strada. Un botto secco e lo vedo morente in mezzo ai rifiuti accumulati dal vento e dall’incuria. L’ho avuta vinta. Maria Callas ha smesso di cantare. Sento solo un suono stridente e sgradevole. Una voce robotica continua a ripetere: Game over, game over , game over, game over……
L’auto è stata gentilmente fornita da Motor Village, Corso Meridionale 53 Napoli
Il modello in prova è: Jeep Renegade, motore 2000 turbodiesel, 4X4, cambio manuale 6 marce, versione Limited
Servizio fotografico a cura di Giuseppe Silvestro Tortora