Fulmine a ciel sereno
Fragorosi, intensi anni ’80. Miguel Bosè vince il Festivalbar con Olimpic Games, inno dei Giochi di Mosca, quelli boicottati dagli Usa. E’ l’anno de Il nome della Rosa di Eco, di Apocalypse Now di Coppola, dell’uscita di Pac Man. In televisione imperversa Happy Days, ed Heather Parisi incanta gli italiani con Disco Bambina e quelle sue gambe che vanno così in alto come mai nessuna. Non sono ancora gli anni ottanta dell’immaginario collettivo. Siamo all’inizio, niente ancora Bim Bum Bam per i bambini, niente Drive in per i loro fratelli maggiori. Sono cose che verranno qualche anno dopo.
A Palazzo Chigi troviamo Arnaldo Forlani coi suoi enormi occhiali; al Quirinale l’indimenticato Sandro Pertini. A giugno la strage di Ustica, uno dei tanti misteri italiani destinato a non avere mai risposte compiute. In agosto, le bombe alla stazione di Bologna mettono sotto i riflettori la strategia della tensione. Non è un anno facile. Ventitré novembre, domenica. È il giorno del derby Juve Inter. Gli italiani sono incollati davanti alla tv per vederne un tempo in differita: all’epoca il satellite doveva ancora decollare, si era in piena guerra fredda e le pay tv non esistevano nemmeno oltreoceano. Allo stadio Partenio l’Avellino gioca contro l’Ascoli una partita decisiva per la salvezza, dovendo scontare cinque punti di penalizzazione dovuti a uno scandalo calcio scommesse dell’anno prima, in un’epoca in cui, in caso di vittoria, il bottino non era di tre punti, ma di due, e quindi il recupero di cinque era impresa disperata.
Uno spaccato di realtà italiana distante trentacinque anni, nel quale rintracciamo tanto della nostra attualità, e un brivido ci assale al pensiero che poco o nulla sia cambiato, alla constatazione che il tempo per certi versi sembra essere sospeso.
Stessi governi distanti dai cittadini, misero preludio di quelli che verranno. Stessa società dello spettacolo così incline all’intrattenimento trash, così irrefrenabilmente mitopoietica, così già svenduta a un mercato che si nutre del torpore delle menti. Un brivido più dolce ci dice, con sarcastica malinconia, che oggi come allora, in Italia la domenica è sempre domenica. Lasagne, paste al forno, famiglie riunite. Così dev’essere stata anche quella domenica.
La sera, il telegiornale interrompe le trasmissioni, in edizione straordinaria. Un Emilio Fede appena cinquantenne, teso in volto, appare sullo schermo. Non vengono pronunciate le solite parole ugualmente ricorrenti, trent’anni prima, trent’anni dopo, allora come oggi – scandalo, calcio scommesse, tangenti; se ne aggiunge invece un’altra, che fa trasalire il paese intero. Terremoto. Ancora, pochi anni, appena quattro, dopo il Friuli.
Terremoto. Sì, perché alle 19.43 la terra all’improvviso trema con fremito immenso, e un brivido lungo un minuto e mezzo ne fende la crosta dall’Irpinia al Vulture seppellendo vive dodicimila persone, delle quali un quarto morranno. I numeri sono impietosi: dicono 6,9 alla scala Richter, 10 alla Mercalli. Perché noi misuriamo tutto, per farlo nostro. Solo la morte non misuriamo, perché non la vogliamo, non vogliamo farla nostra. Noi, la morte la rifiutiamo.
Ma la morte arriva tuttavia, e un grido di dolore infinito si leva nel Meridione d’Italia, da un Sud antico, fatto di borghi arrampicati come edera sui fianchi delle montagne. Borghi indomiti, coraggiosi, che ci vuole davvero molto coraggio a decidere di viver lì in quegli anni. Borghi fatti di gente col cuore selvaggio come le loro montagne, gente che no, non vorrà abbandonare le case che la loro terra ha inghiottito con colossale ingordigia, ma riprovarci, resistere, ricostruire. Esistere.
Novanta secondi, e uno straziante urlo, un grido di ciascuno, che diventa collettivo. Le notizie arrivano a singhiozzo. È crollato un palazzo a Napoli. Non ci sono notizie di altri crolli. Non ci sono notizie. Si scoprirà solo dopo molte imperdonabili ore che le notizie non arrivavano perché non c’era nessuno, vivo, che potesse darne. E chissà, quelle ore, a chi pesano oggi sulla coscienza. Ne riferirà, indignato, a reti unificate come fosse Capodanno, il Presidente Pertini.
Poi, si apriranno le danze del solito dilettantismo italiano, con soccorsi stranieri che arrivano sul posto prima dei nostri, con truppe che si perdono tra i monti, con provvigioni inviate troppo in ritardo, o troppo poche in quantità, o forse troppo assai, e comunque quasi sempre troppo qualcosa; con i soliti avvoltoi a lucrare per i vent’anni successivi sulla tragedia degli sfollati, sulla ricostruzione, sulle sventure altrui, con tangenti, appalti truccati e brogli d’ogni natura. L’Irpinia come L’Aquila e, tra le pieghe della storia, tra paesi devastati e interi centri scomparsi dalle mappe, si scorgono le storie personali di madri, padri, fidanzati, di vite spezzate, vite che adesso vediamo come distanti trent’anni, ma che siamo per sempre, pur sempre, noi.
Non si può comprendere una foresta senza vederne gli alberi
Quell’albero ce lo mostra Orazio Cerino, col suo monologo Il fulmine nella terra. Irpinia, 1980, finalista al Fringe Festival 2014, per la regia di Mirko Di Martino.
Un monologo intenso che è per ciascuno che vi assista anche dialogo, un dialogo interiore che scuote corde della memoria in grado di riportare lo spettatore a quegli anni goliardici prima, e di calarlo in quei giorni terribili poi, facendogli vivere di persona i momenti tremendi in cui il padre cerca il figlio, e i figli i padri.
Dalle cosce della Parisi e dalla bandana di Bosè ci si ritrova, per effetto della mimesi, sudati e appiccicosi, tra polvere, sangue e cemento, che i terremotati pare di vederli, di sentirli, di averli traditi anche noi.
Cerino si propone in un crescendo disperato benché lucido, che punta l’indice senza sconti alla incapacità dei governanti di allora come d’oggi, che ripropone tra sacro e profano gli enigmi della teodicea, che racconta con disinvolta passione la storia di un’epoca e di quegl’altri, che siamo noi.
E noi non possiamo che consigliarvelo, avendone l’opportunità. Non perdetelo.