Di corsa, poi a piedi
Di corsa (ovvero quando il torace ti scoppia)
L’orologio analogico da polso segnava più minuti di quanti Claudio ne volesse leggere. Andava sempre così. In piedi sulla banchina nell’attesa del treno, insieme ad un’altra decina di passeggeri nervosi, Claudio sgusciava una caramella alla menta con le dita e con le labbra, ché l’altra mano era intenta a tenere la borsa e il cellulare; sulla spalla una seconda borsa a tracolla, in tasca il biglietto che quasi cascava. La piccola pillola profumata aveva mancato la bocca, e rotolando per qualche istante sulle mattonelle incrostate di chissà cosa, era finita irrimediabilmente fra i binari. Un tondino bianco sul metallo scuro, perfino troppo candido per trovarsi lì. Era l’ultima.
Claudio aveva sempre trovato lo scorrere del tempo qualcosa di molto irritante. Certi giorni, quando riempiva di numeri e lettere ogni spazietto dell’agenda dalla copertina blu, si sentiva super produttivo e lo fotteva, quell’orologio instancabile; altre volte —più spesso— il tic di guardare di continuo quel display grigio si ripeteva durante tutta la giornata. E i numeri andavano veloci, allora lui si scottava la lingua bevendo il caffè troppo in fretta, non si fermava a guardare gli occhi del cassiere, non aspettava l’ascensore e, nel raggiungere i posti meticolosamente indicati dall’agenda, si metteva a correre. Abbracciava le scartoffie e le borse che aveva con sé, e correva nelle sue scarpe marroni di pelle, con i lacci neri che andavano da destra a sinistra.
Da piccolo gli piaceva quando la domenica mattina, scarpette ai piedi, il papà lo portava al parco. Cronometro integrato all’orologio da polso, Claudio si sentiva un perfetto atleta fra i sentieri alberati. E il papà, senza tener conto dei percorsi diversi e probabilmente barando, gli leggeva il tempo: sempre migliore della corsa precedente, sempre un record. Ma quelle in città erano un altro tipo di corsa, e il suo Casio da adulto non aveva la funzione cronometro. Prima correva per il gusto di correre, ora lo faceva per necessità.
Prima, col naso all’insù, osservava il rettangolo frastagliato di cielo fra le foglie degli alberi giganti correre insieme a lui alla stessa velocità. Ora, mentre correva, pensava a non perdere il portafogli, a rispondere al telefono e finire quel panino scampato al pranzo. Riprendeva fiato ai semafori rossi e dietro i genitori coi carrozzini che occupavano i marciapiedi, maledicendoli un po’ col pensiero.
Abbracciava le scartoffie e le borse che aveva con sé, e correva nelle sue scarpe marroni di pelle, con i lacci neri che andavano da destra a sinistra.
Le sagome dei sentieri delle sue corse non erano mai una linea verde di foglie e tronchi, ma un miscuglio di colori al neon e voci semispezzate di passanti che avevano la sfortuna di incrociare il suo passo veloce. Col pensiero era già arrivato al civico della sua meta, e anzi prevedeva di bussare al campanello successivo. Non era mai lì dove si trovava a correre, era proiettato invece in un non-luogo immateriale, scavalcando goffamente i tratti d’inchiostro grigio chiaro fra le tabelle striminzite della sua piccola agenda blu.
Correva e correva, verso la fine del giorno, la fine della pagina, per poi svoltarla e riempirla di nuovo, senza fermarsi a riprendere fiato. Senza pensare che quel blu della copertina, con un po’ di fantasia era forse della stessa tonalità del cielo di quelle lontane mattine domenicali.
(cc)
A passo lento
Lo sportellone del culo della macchina lunga si chiuse. Il motore borbottò elegante, la macchina partì. La platea iniziò a compattarsi e diventò un tutt’uno. Lei, bella come il sole, come un fiore, come qualsiasi cosa bella e basta, era la prima della fila, di quel grumo di persone. Aveva negato il supporto di chiunque e seguiva l’auto grigia come quel cielo di metà febbraio. Quando arriva la primavera? si era chiesta tre ore prima mentre si stava truccando, ma la domanda che voleva farsi era un’altra: Tornerà la primavera?.
Camminava. Occhiali grandi e densi come il piombo, annusava il fumo che usciva dal tubo di scappamento. Macchina lenta davanti a lei, lentissima, e passi pesanti e ad ogni passo una lacrima, quasi che l’asfalto schiacciato fosse pieno d’acqua che non aspettava altro che uscire dal suo viso coperto.
Aspettava il suo passo lento rimbombare tra le scale e il pianerottolo, fin dentro l’uscio.
A passo lento le presentò il suo maestro delle scuole elementari che lo adorava (si adoravano a vicenda, anche se lui in italiano non è che fosse granché). Fu in piazza. E che bella ragazza ti sei trovato, uno stupidetto come te… e Che dio vi benedica e che, quando il maestro prese più confidenza Che se fossi giovane anche io, anche io le farei la corte.
A passo lento si respira anche se il cielo è brutto, anche se la strada davanti è brutta e il futuro è quel che è. A passo lento si parla sottovoce per non disturbare quel che resta del destino. Si piange in silenzio, a passo lento.
Seguiva quella macchina e percepiva i passi lenti di tutti quelli dietro. Il suono sincrono di un continuo applauso soffocato.
A passo lento si muore, com’è morto lui.
Un’auto meno elegante e senza lucidità. Un tonfo. Lei lo stava aspettando. Aspettava il suo passo lento rimbombare tra le scale e il pianerottolo, fin dentro l’uscio.
A passo lento si insegue quel che resta dell’amore.
A passo lento si diventa spettatori di quel che resta della vita senza amore.
Il motore della macchina elegantemente si spense.
Quando torna la primavera? sussurrò alla bara chiusa.
A passo lento la morte è più forte dell’amore.
(eg)