Piume rosse su tappeto bianco
Questo tappeto bianco non è il massimo per cercare da mangiare. Fa molto freddo, per fortuna le piume mi tengono caldo. Non è molto, ma è tutto quello che ho per proteggermi. Essere un piccolo uccello non è una grande risorsa, quando il sole è gelido e va a dormire molto presto.
Quando l’erba era verde non mi lamentavo: un seme o un vermetto lo trovavo sempre. Procurarmi da mangiare è stata la prima cosa che mi hanno insegnato i miei genitori quando sono caduto dal nido, prima ancora che imparassi a volare. Il mio nido era lassù, in cima all’abete. Ho fatto un bel capitombolo, è vero, ma non è successo niente. Pare che sia normale cadere. L’importante è rialzarsi. Sbatacchiare le ali. Prima o poi ti sorreggono e puoi tornare a casa. Basta crederci.
Ora però qui è tutto bianco, mamma e papà non ci sono più, io sono grande e devo arrangiarmi.
Una parola.
Saltello qua e là, ma non vedo niente.
Un giorno avevo tanta fame così, attirato da una voce familiare, mi sono avvicinato a una cosa di ferro in un giardino. C’erano tanti altri uccelli piccoli come me là dentro. Cantavano. Sono rimasto incantato, davvero bravi. Però ho capito subito che era un canto triste. Mi sono fatto coraggio e ho cercato di dialogare con loro.
Sono stati gentili. Mi hanno spiegato che si trovavano prigionieri degli umani, i quali davano loro da mangiare e acqua pulita in cambio di quel canto.
Non sono sicuro, nonostante la mia fame, che fosse uno scambio equo.
Certo loro erano anche bellissimi, con le piume colorate. Io mi sono un po’ vergognato, perché di colorato ho solo il petto, come un’arancia. E non so cantare come loro.
Io mi sono un po’ vergognato, perché di colorato ho solo il petto, come un’arancia.
Però rischierebbero la vita e allora tanto vale fare contenti questi umani e canticchiare anche se non ne hanno tanta voglia. Tutto per un pugno di semi.
Semi che, lo ammetto, mi facevano aumentare la fame solo a vederli. Per un attimo ho anche pensato se non valesse la pena tentare di entrare in qualche modo, chiedendo ospitalità, pur di sfamarmi un po’. Magari nel loro nido, triste e finto, avrei trovato quel calore che qua fuori, da solo, non riesco a rimediare. Non so se gli umani avrebbero accettato la mia presenza, in fondo non so cantare bene e non sono bello come questi colorati canarini.
Ma non sono riuscito a convincermi.
Che creature sono questi umani che privano della libertà altre creature per il loro comodo? Che diritto hanno? È come se io mettessi in una gabbietta un moscerino solo per sentirlo ronzare a mio piacimento. Sinceramente non lo trovo divertente e non mi sembra giusto. Piuttosto il moscerino me lo mangio, ma se lui è furbo riesce a salvarsi.
Qua fuori è così che funziona, me lo hanno spiegato mamma e papà: si vive alla giornata secondo le proprie possibilità. E le possibilità sono uguali per tutti e per tutti diverse, secondo le caratteristiche di ognuno.
Insomma, io il moscerino in gabbia non ce lo metto, vorrei mangiarlo, ma lui se riesce la scampa.
Però ora con questo freddo di moscerini non ne vedo. Per fortuna intorno alla gabbia sparsi sulla neve ci sono avanzi di semi dei miei cugini e qualcosa riesco a mettere nello stomaco.
Ma un rumore mi ha fatto sobbalzare. Uno degli umani è uscito di casa e sta venendo qui! Con il cuore in gola in meno di un attimo sono volato via.
A proposito di possibilità e sopravvivenza. Non mi fido troppo della cattiveria umana. Meglio non rischiare di finire in gabbia, volare mi piace troppo.
Sì, ma oggi ho di nuovo fame. E freddo. Senza un po’ di cibo nella pancia nemmeno le piume bastano a scaldarmi. Mamma e papà non mi avevano detto che sarebbe venuta questa cosa bianca e fredda a coprire tutto come un tappeto bianco. Forse non lo sapevano.
Ho cambiato zona. Sono in un posto dove ci sono tanti alberi. Sono spogli, avranno freddo anche loro. Nonostante la neve ci sono molti umani che passano di qua. Mi sento in pericolo, non so che fare.
Poi ne vedo uno seduto, con in mano qualcosa. Guardo meglio, mi avvicino zompettando. Sta seminando briciole! Altri uccelli gli sono intorno, fiduciosi, e mangiano tranquilli. Ci provo anche io.
Mmmm… che buone queste briciole! E non mi sembra che l’umano chieda qualcosa in cambio. Però per sicurezza appena sono sazio me ne volo via.
Ritorno il giorno dopo, e poi l’altro ancora. L’umano è sempre là incurante del freddo. Distribuisce le briciole con generosità ed è ormai certo che non vuole niente. Anzi, mi ha preso in simpatia. Dice che sono così piccolo che gli faccio tenerezza. Bè, non è che un passero o una cinciallegra siano molto più grandi di me, ma se lo dice lui… Dice anche che lui sa perché io ho il petto del colore dell’arancia.
Mi ha raccontato la storia di un umano che non era solo un umano, ma qualcosa di più, che però altri umani che avevano paura di lui lo hanno messo a soffrire su una croce per ucciderlo. La morte in croce è lenta, lui aveva ferite dappertutto e sul capo una corona di spine.
Una mamma pettirosso che passava di là si è impietosita e ha tentato di togliere dal suo capo qualche spina. Era troppo piccola per riuscirci, in compenso si è sporcata le piume del petto con il sangue di quell’umano che non era solo umano, e da quel momento, per ricordare il suo atto così generoso, tutti i suoi discendenti nascono con il petto rosso.
Che bella storia. Mi ha scaldato un pochino sotto le piume rosse del petto; sono sicuro che non sono state solo le briciole a darmi calore.
Anche l’umano è commosso, ha detto qualcosa sul fatto che la gente è così cattiva a volte, mentre una creatura umile sa essere mille volte più caritatevole. Ora non parla più, ha il capo chino e gli occhi lucidi, dai quali esce dell’acqua. Chissà cosa pensa. Non vedo sangue, ma è come se soffrisse anche lui come il tizio in croce. Mi dispiace di vederlo così.
Non vedo sangue, ma è come se soffrisse anche lui come il tizio in croce.
L’umano gentile è sorpreso, ma non ha più l’acqua dagli occhi, la bocca gli si allarga in un segno di contentezza. Con la mano mi accarezza il capo. Io mi sposto solo un poco, non volo via. Sto bene qui.
Dal cielo arriva un fiocco bianco, poi un altro, e un altro ancora, si dirigono verso il suolo, già bianco di suo.
Uno, piccolissimo, danzando un po’ nell’aria gelida si deposita sul mio petto rosso.