Supramonte: a cena col bandito
Arriviamo a casa di Tiu Bore (nome di fantasia), nel Supramonte, a pomeriggio inoltrato. Le luci del sole sono diventate poco più di un riflesso livido sulle rocce del Corrasi. La casa di Tiu Bore è una grande tenuta, ingrandita nel corso degli anni dal lavoro della sua famiglia, un lavoro onesto, fatto di sudore e fatica. Ma lui non è sempre stato come il resto della sua famiglia. Lui era un bandito. Potremo definirlo un bandito redento, o forse un vulcano addormentato. Ci fa entrare in casa dopo aver attraversato il giardino, una porzione di terreno scoscesa con arbusti di macchia mediterranea.
Gli odori della campagna si fondono con quelli della notte che avanza. Il belato di una capra solca il silenzio. La casa è composta da una lunga sala con pavimento di legno. Al centro un caminetto scoppiettante sormontato da grossi tronchi di ginepro lucidati. Il tavolo è semplice, quasi spartano, ma molto grande. Ci sediamo sulla panca che sostituisce egregiamente le sedie, dando un senso di convivialità molto intenso. La cucina è solo un angolo infondo alla sala. Una donna piccola piccola armeggia con pentole e tegami tra i fornelli. Ha un fazzoletto sul capo e non arriva a un metro e cinquanta.
-Accomodatevi.- Ci dice Tiu Bore con voce che sa di pecore e solitudine. Ha il volto di legno scolpito, solco dopo solco, dagli anni. La pelle cotta dal sole è quasi nascosta dalla folta barba nera e riccia. Gli occhi sono due spilli neri che luccicano sotto un unico sopracciglio. Il cappello, su bonette, proietta una piccola ombra sulla fronte che consegna all’uomo un’aria severa. Tiu Bore invece sorride e versa abbondante vino rosso accompagnato da scaglie di pecorino stagionato e pane carasau. Ne metto in bocca una. Il piccante mi penetra le fosse sinoidali e scivola nella gola. Trattengo un colpo di tosse che mi farebbe sembrare poco sarda.
Il profumo della carne si spande nell’aria. All’interno del camino due spiedi poggiati al muro sorreggono due metà di porcetto. La cotenna è lucida, il grasso si scioglie lento e gocciola sul letto di mirto. Ho fame. La piccola donna arriva concitata con un vassoio di culurgiones al sugo. Ha le mani ossute e nodose, ma un’energia che non riesco a capire da dove provenga. Mangiamo con gusto il primo piatto. Tiu Bore ci spiega dove andremo domani. La Gola di Gorropu è il canyon più grande d’Europa, una gigantesca ferita nel cuore calcareo dell’isola. Sono eccitata, non vedo l’ora di scoprire questa meraviglia.
Tiu Bore mangia molto lentamente, ma svuota i bicchieri di vino uno dietro l’altro. Ci racconta delle prodezze della sua gioventù a cui, forse, aggiunge qualche aneddoto edulcorato per mantenere quell’alone epico sulle vicende del banditismo. Lo fisso costantemente, ma non riesco a leggere le espressioni del suo viso. Mi ricorda una delle tradizionali maschere di legno. Forse non prova davvero alcuna emozione a raccontare le sue gesta, forse. Ci dice che ha fatto molti sbagli nella sua vita, ma nelle sue parole colgo un velo di tristezza più che di pentimento.
Tiu Bore ci guarda e sorride. Ha scontato le sue colpe e ora si dedica ai suoi ospiti con rinnovata passione. Qualcosa però mi lascia l’amaro in bocca, non so se sia il miele di corbezzolo o quelle scintille che ogni tanto sprigionano gli occhi piccoli e stretti dell’ex bandito.
Arriva il porcetto fumante. La donnina lo mette in tavola su dei grandi vassoi di sughero. Aggiunge anche dei contenitori di plastica, i vecchi “lavamano” di una volta, con finocchi e ravanelli. La carne è ottima, cotta al punto giusto. La polpa, morbida a profumata si dissolve tra la lingua e il palato, sprigionando un gusto che pervade tutta la bocca e rimane lì, scolpito, anche dopo aver deglutito. La cotenna è una crosta fumante. Soffio e metto in bocca. Quasi la sento scoppiettare tra i denti. Il croccante e il tenero del grasso si mescolano penetrando l’uno nell’altro in un valzer di sapori che sanno di cisto e lentischio.
Tiu Bore continua a versare vino, io non bevo e sono come tagliata fuori da un cerchio invisibile. I ragazzi della band invece gli fanno compagnia, ma non riescono a tenere il passo. Arriva la piccola donna col dolce, l’immancabile seadas al miele. – Le ha fatte mia madre – biascica Tiu Bore indicando la donnina. Con la forchetta taglio un angolo e il formaggio fuso si sprigiona invadendo lo spazio bianco del piatto, fondendosi col miele. Sono sazia, ma la gola implora quella meraviglia di gusto.
Tiu Bore ci guarda e sorride. Ha scontato le sue colpe e ora si dedica ai suoi ospiti con rinnovata passione. Qualcosa però mi lascia l’amaro in bocca, non so se sia il miele di corbezzolo o quelle scintille che ogni tanto sprigionano gli occhi piccoli e stretti dell’ex bandito.