Il quadro nero, La Vucciria
Trasiu rintra ‘u tiatru pì viriri a Guttuso, ma ‘un vitti nenti, ‘u quatru nivuru era!
Il cuoio delle suole impatta sul morbido tappeto rosso lungo la scalinata monumentale del Teatro Massimo di Palermo. La pioggia ha smesso di lavare la città lasciandolo asciutto. La serata è ancora fresca per tutta l’acqua che è venuta giù. La luce intorno è gialla di lampioni e di luna piena. Continuo a salire, sento il vocio dei saluti, le risate composte delle signore, profumo di essenze mediterranee, vedo tacchi alti, borsette da sera e signori in cravatta. Il Foyer è già affollato. Sono felice di essere solo, nessuna distrazione, posso ammirare tutto quello che ho intorno senza dovermi focalizzare in conversazioni varie, mi avrebbero solo distratto da tanto godimento.
Porgo il mio biglietto, lo strappo della matrice mi provoca un brivido nel cervello, sto per entrare, sento già la vampa di calore che mi investirà all’interno
L’orchestra prende posto nel fragore dell’applauso, il direttore sorride, le prime note danno vita agli strumenti, il pubblico si placa, il sipario si apre. In scena, “Il quadro nero, ovvero La Vucciria, il grande silenzio palermitano”, opera per musica e film di Roberto Andò e Marco Betta, da Renato Guttuso e Andrea Camilleri. Splendida convergenza di tre piani narrativi, musica, recitazione, immagini, che solo un teatro magico come questo poteva porre nella giusta posizione visuale. Orchestra a ridosso del pubblico, attori subito dopo, sul palco, immagini all’interno di una gigantesca cornice che occupa tutto lo spazio del fondo scena. Un’alchimia mai vista prima, quasi una rimodulazione del cinema muto. Ogni fotogramma sottolineato dal trasporto musicale. Meraviglioso il video di Andò, capace di restituire la bidimensionalità del dipinto di Guttuso nonostante il movimento degli attori. Il rallenty della narrazione filmica concede il giusto tempo per riflettere, per metabolizzare il messaggio, per notare ogni dettaglio di questa fetta di vita colta dal grande pittore e che la genialità dello spettacolo ha saputo rieditare.
Orgia di morte. Il macellaio stacca l’ultimo lembo di pelle dall’animale e lo issa su un gancio, incurante del pudore della bestia, così nuda ed esposta. Si accanisce subito su un altro cadavere, anch’esso a disposizione di occhi umani concupiscenti e pornografici. Frutta, uova, pesce, verdure, tutto a disposizione, tutto a favore dello sfruttatore acquirente che gira per il mercato soppesando, contrattando, disinteressato ai suoi stessi simili, bulimico di fronte a tanto ben di Dio. Non c’è vero scambio, ognuno concentrato nella sola opera di preservare se stesso, la propria sopravvivenza attraverso il pasto, il commestibile.
Un rituale giornaliero dettato da regole ferree che non ammettono deroga, imbrigliate entro limiti non valicabili, a guardia di un ordine prestabilito volto a proteggere lo stato dei fatti. La donna di spalle, interpretata da un’elegantissima Giulia Andò, incontra lo sguardo dell’uomo con la maglia gialla, l’intenso Francesco Scianna. È attratta da lui tanto da non avere il tempo per poter mostrare il suo volto al pubblico. Si parlano con il pensiero, si chiamano in silenzio, si desiderano, ma le regole non permettono di deviare, neppure per una volta. Il percorso è deciso dalla consuetudine, lo dicono anche gli attori in carne ed ossa.
La musica vola e cresce di volume quasi fosse un rimprovero per ciò che sta accadendo. Tutto ritorna come prima, ci si accanisce nella ricerca del cibo
Il pensiero per ciò che è stato ha solo un che di superficiale, semplice fuori programma capace al più di un momento di curiosità. Lentamente la scena si ripete, ricreando il dipinto per intero, scintillante di colori, di tutto ciò che sembra vita pulsante, almeno all’apparenza. La donna stavolta si gira e guarda dritto nella macchina da presa, raggiungendo lo sguardo dei presenti, in un tacito atto d’accusa perché tutti siamo responsabili della sua morte, della sua rinuncia alla vera vita. Le immagini sbiadiscono virando quasi in un bianco e nero, il mercato si svuota, gli attori scompaiono, la merce cade dagli scaffali, muore definitivamente anch’essa. Un cane e due gatti randagi si appropriano di ciò che è rimasto, quasi a sbatterci in faccia la cruda verità che noi umani non abbiamo neppure la decenza di agire per solo istinto, ma siamo vittime e carnefici di noi stessi. Una lampadina ondeggia in primo piano come un pendolo a ricordarci del tempo che passa, una lampadina troppo fioca per fare luce davvero. L’ultima nota e l’ultimo fotogramma si consumano insieme, la grande cornice contiene di nuovo un quadro nivuro.
Palermo è di nuovo liquida, in tutta la sua bellezza. Scendo le scale, decido per una passeggiata, ho troppi pensieri in testa. Non posso andare a dormire adesso