Il disincanto (ovvero lo schiaffo quando apri gli occhi)
Il vento forte che gli graffiava la pelle del viso quasi non lo sentiva nemmeno. Era un pomeriggio d’inverno dalle ore densamente pesanti e vuote. Quanto è drastico il vedere i dettagli che ci circondano sotto una fredda luce al neon? È bastato che si infrangesse quel velo di cristallo tra lui e le cose, che un po’ le filtrava, un po’ smussava gli spigoli, un po’ sfumava i colori.
Ora invece non c’è più nulla fra Davide e le cose; nulla se non un sincero e spiazzante disincanto. Nudo, crudo, carnale, reale. E il mondo non gli era mai sembrato così squallido come in quel mercoledì pomeriggio. Un po’ come quando si risvegliava ancora brillo e disgustato dopo una notte di eccessi.
Come è forte l’odore di realtà, come è atroce
Come è forte l’odore di realtà, come è atroce.
E quanto fa male lo schiaffo silenzioso che ti da appena apri gli occhi. Davide sentiva un freddo nelle ossa, di quelli che ti limitano i movimenti. O forse era così distaccato da quel quadro, da quella coperta e da quella penna caduta a terra, che non sentiva proprio niente.
Di colpo l’entusiasmo e le musiche, i ricordi di voci, di baci e di colori del passato gli sembravano lontanissimi; cercava di ricordarsi come avesse fatto ad avere l’aria tanto spensierata in quella foto scattata tre estati prima. Prendeva la cornice dal comodino e se l’avvicinava agli occhi: cercava nelle impercettibili rughe del sorriso la chiave di quel benessere apparentemente così naturale. Forse in passato era solo più cretino; di certo era più credulone, forse più appassionato. Sicuramente era più felice.
E richiamava alla mente quella voce, la sensazione del sole che ti scalda la pelle quando lo guardi con gli occhi chiusi, la sua risata indistinguibile, la cantilena dell’incedere del treno sulle rotaie; il treno dei suoi primi viaggi verso l’indipendenza, con gli occhiali da sole messi in testa, il panino con la mortadella nello zaino.
Ma nessuno di quei vecchi tasselli di vissuto riusciva a fare davvero rumore in quel pomeriggio di quel mercoledì. Tutto gli risuonava fra le pareti della testa, come un’inquietante melodia stonata proviene da una radio rotta in chissà quale stanza sconosciuta, e comunque troppo lontana. Nessuna di quelle immagini ricomponeva il velo di cristallo, squarciato da quello schiaffo crudele, e volato insieme al vento forte.
Se era difficile e triste fare appello ai giorni che erano stati, ancor più duro era contare su quelli che sarebbero venuti.
La piantina di margherite sul davanzale della cucina era ormai morta; il suo scheletro rinsecchito fingeva di prendere vita muovendosi a intermittenza con gli sbuffi del vento.
Davide assisteva a quella danza attraverso i vetri della finestra: la trovava offensiva e violenta allo stesso tempo. Eri tanto bella. Perché hai rinunciato alla tua linfa? Perché lasci che ora le tue foglie appassite si muovano al volere di un vento ringhioso e sgarbato?
Perché ti adagi ad un destino che non è il tuo? Perché, pianta, hai frantumato il mio incanto.