La donna di Guttuso
Non so distinguere una crosta di formaggio fuso da un quadro d’autore. Ma amo ugualmente girare per musei o andare per mostre. Sono un funzionalista, un utilitarista. Se qualcosa mi lascia un’emozione, che sia un Guttuso oppure il disegno di un bambino dell’asilo, non mi importa molto. Mi interessa la sensazione, l’impatto, il senso evocativo che mi trasmette. Dei tromboni esperti mi interessa poco. Nelle piazze dell’isola avevo visto una serie di Totem che pubblicizzavano una mostra di pittori siciliani, dai primi del novecento fino agli anni settanta. Ero li da solo, come faccio sempre quando sento il bisogno di ricominciare. Quel posto l’ho eletto luogo dell’anima sin da ragazzo. Mi ha consolato da adolescente quando vivevo tutti i santi minuti della giornata a cazzo duro, quando anche pisciare era un problema. È stato il mio giaciglio quando ho vissuto intensamente il primo amore. Mi ha restituito alla vita quando credevo che non avrei mai potuto colmare il vuoto dell’abbandono. Ero certo che sarebbe stato ancora una volta benigno con me, adesso che avevo l’esigenza di reinventarmi.
Mi ha consolato da adolescente quando vivevo tutti i santi minuti della giornata a cazzo duro, quando anche pisciare era un problema.
Guttuso era esposto nella prima sala a sinistra, oltre la corte interna. Sono entrato a passi lunghi, curioso come un bambino al circo. Mi sono ritrovato ai piedi di un quadro enorme, impossibile da raccogliere nel mio campo visivo. Lentamente, ho iniziato ad indietreggiare, cercando la giusta distanza, quella che mi avrebbe permesso di godermelo come si doveva. Ero obbligato a muovermi in retromarcia. Mi aveva catturato in particolare un dettaglio, una figura di donna, ritratta di spalle, mentre si avvicina ad un banco del mercato per fare la spesa. Che bel culo, che belle spalle. Cercavo di immaginare se davvero Guttuso l’avesse vista alla Vucciria, se la conoscesse. Il braccio destro steso a reggere una borsa, il sinistro piegato davanti al busto. Cosa porta in mano? Il portafogli forse? Mi beavo la mente con le mie elucubrazioni, quando inevitabilmente presi in pieno una signora. Il rumore della costosa cristalleria che portava al collo, ai polsi e ai lobi mi fecero deconcentrare. Girandomi le dissi sottovoce: Mi scusi, sono stato imperdonabile. Che bel culo, che belle spalle. Cercavo di immaginare se davvero Guttuso l’avesse vista alla Vucciria, se la conoscesse.
Seguivamo le geometrie del pavimento, percorrendo traiettorie sghembe che ci facevano incrociare, sfiorare, opporci, seguirci. Invitarla a bere qualcosa mi sembrava cortese, più che da fottitore incallito, per cui la mia coscienza era a posto. Al bar iniziammo finalmente a parlare con naturalezza. Non so come mai, i musei sanno tanto di tempio, la gente parla sottovoce.
Aveva lo stesso accento di Carmen Consoli. Di dove sei? Catania! Bingo! Tu? Napoli! Iniziammo a parlare con una naturalezza che non mi aspettavo, il suo corpo parlava con lei. Non rideva, la sua era una cascata di note. Aveva i gomiti appoggiati al tavolino. I suoi seni erano aggettanti come il Barocco della sua bella città ed andavano ben oltre il bordo della superficie di legno che ci divideva. Me li mostrava con una generosità quasi distratta. Io, di aggettante, in quel momento, avevo solo qualcosa negli slip che sarebbe stato sconveniente mostrare con altrettanta distratta generosità al tavolo di un bar sulla piazza.
Non sono un finto modesto. So di avere una bella pelle e belle gambe. Mi stesi quasi sulla mia sedia, con le mani dietro alla testa ed appoggiai con fare naturale i piedi sullo sgabello alla sua sinistra mostrandole le gambe scure di abbronzatura e di peli. Inarcai la schiena facendo sollevare la polo in modo che vedesse una parte del ventre. Fu un modo per ricambiare. Mi guardò sorridendo, dai capelli alla punta delle scarpe. Mi piace la barba nera, disse. Mi ero accuratamente rasato poche ore prima, evidentemente si riferiva al mio spettacolino.
Prese una granita di gelsi, io andai su qualcosa di leggermente alcolico. Avevo bisogno di sciogliere i miei ultimi lacci ma allo stesso tempo dovevo rimanere lucido. Cos’è? mi chiese. Southern Comfort. Posso provarlo? Certo, prendi. Guardò il bicchiere in controluce, lo girò ed appoggiò le labbra dove aveva notato una traccia della mia saliva.
Chi cazzo sei, pensai? Una veggente? Del sesso, dell’incontro, adoro l’intimità ma non quella data dalla familiarità. Amo che ci si senta in sintonia. Senza paure, senza timori. Più mostri la parte interiore di te, più mi arrapi. Infilò il dito medio in bocca, lo insalivò a sufficienza, lo intinse nel mio whiskey, mescolò e mi restituì il bicchiere. Bevvi a piccoli sorsi, mentre nelle orecchie ormai avevo un martello pneumatico. Passammo la serata a raccontarci, a ridere.
Era in vacanza con la sorella e le nipoti, rimaste a casa per la stanchezza del viaggio in macchina. Sarebbe stato banale finire a casa mia, quasi adolescenziale. Sarebbe stata una cosa metà. Ci saremmo potuti saziare a vicenda, complice quella parentesi che sarebbe stata la sua vacanza.
Una settimana per fare sul serio quello che fino ad allora entrambi avevamo solo immaginato. Con quella donna avrei voluto scopare all’aperto. La sua era una bellezza sfrenata, sanguigna, porca.
Aveva uno sguardo liquido, zigomi affilati, denti grandi, il labbro superiore leggermente sproporzionato rispetto all’altro. Cosce tornite, mani lunghe.
Si è fatto tardi, ti riaccompagno. Domani ti va di svegliarti presto? Perché? Vengo a prenderti. Facciamo colazione insieme e saliamo su, a Monte Santa Caterina. Si gode tutta l’isola, si vedono in fondali in trasparenza da lassù ed è deserto… Mi sembra un’ottima ragione per svegliarsi presto, mi rispose!
Avevo conosciuto la donna di Guttuso.