Io. Iracheno, curdo, yazidi
“Lasci che Le spieghi signorina, é normale sia confusa”. Seduto di fronte a me al tavolo di un bar c’è un uomo alto con i capelli bianchi, gli occhi neri e una gentilezza innata che nemmeno il taglio severo dei baffi riesce a smentire. “Conosce l’Iraq, giusto?”. “Certo, conosco pure i curdi”.
“Ottimo. Noi siamo entrambe le cose, ma anche yazidi. Sentirà pareri discordanti su di noi – d’altronde ci perseguitano da secoli. Ma le assicuro che la nostra non è una vita facile”.
Certo che no. Gli yazidi, che con i curdi condividono l’appartenenza etnica ma non quella religiosa (i curdi sono musulmani, gli yazidi praticano lo yazidismo) sono originari dalla piana di Niniveh, una zona contesa tra il governo iracheno e i sostenitori del Kurdistan indipendente, di fatto controllata e protetta da nessuno. E’ un territorio strategico, fertile e ricco di petrolio, devastato da decenni di conflitti animati da interessi politico-economici.
“E’ vero, siamo una comunità chiusa e molto tradizionale. Il nostro è un culto sincretico praticato in Mesopotamia già a partire dal II° millennio a.C. Adoriamo l’Angelo Pavone e preghiamo due volte al giorno, in direzione del Sole”.
Adoriamo l’Angelo Pavone e preghiamo due volte al giorno, in direzione del Sole
“Il problema maggiore è l’emarginazione sociale. I giovani non riescono a studiare, gli adulti non trovano lavoro, gli intellettuali vengono messi a tacere. Mancano servizi indispensabili come ospedali e scuole. Chi vuole ottenere dei documenti ai fini dell’espatrio deve scendere a compromessi con la corruzione. Questa ormai è prassi. Ad ogni modo oggi siamo ovunque nel mondo, soprattutto dopo le stragi del 2007”.
La miccia che ha scatenato un bagno di sangue è stata la lapidazione di Du’a Khalil Aswad. Du’a aveva 17 anni, era yazidi ed aveva commesso l’errore di innamorarsi di un ragazzo curdo musulmano e di scappare insieme a lui. “Chi l’ha lapidata è gente con idee estremiste che non rappresentano lo spirito della nostra comunità. I nostri capi hanno condannato l’accaduto, se ne sono dissociati. Ma è successo ovviamente troppo tardi”.
La reazione da parte curda non è tardata a venire. “Prima si sono scagliati contro i nostri luoghi santi, poi nel mirino ci sono finiti i civili. Hanno fermato un autobus di linea diretto a Ba’shika. Hanno fatto scendere i passeggeri, hanno selezionato gli yazidi, li hanno messi in riga e li hanno fucilati. Erano 24 operai che tornavano a casa dal lavoro”. La cronaca conferma l’accaduto, era il 22 aprile 2007. Il 14 agosto successivo, leggo in un giornale online, quattro vetture cariche di tritolo sono state fatte esplodere nei villaggi di Tal Uzair, Adnaiya, Qataniya e Al Jazeera. “Al Qaeda rivendicava la mattanza mentre noi seppellivamo i nostri 360 morti. E’ quando tocchi il fondo e non hai più niente da perdere che sei capace di decisioni radicali. In quel momento ho deciso di rompere il silenzio e di cercare di dare voce alla mia gente”.
Ali Rasho – questo è il suo nome – dopo essere diventato un attivista in patria é dovuto fuggire all’estero per evitare di essere ucciso. E’ scappato e ha creato un’associazione.
“La Yazidi Cultural Association é nata allo scopo di dirigere l’attenzione delle organizzazioni internazionali non solo sui problemi della comunità yazidi, ma di tutte le minoranze irachene. E ci stiamo riuscendo. Collaboriamo con Amnesty International, Human Rights Watch, l’ONU e l’Unione Europea. Stiamo avviando progetti di sviluppo nelle aree contese per garantire alle minoranze dei diritti nonché una vera rappresentanza politica. È un’attività scomoda la nostra; per portarla avanti abbiamo dovuto abbandonare le nostre case. Ma senza il riconoscimento dei diritti delle minoranze, la democrazia in Iraq rimarrà una realtà fatiscente”.
Gli chiedo se non abbia paura. Posa la tazzina di caffé e mi guarda per un istante. “La vera domanda è: se non ci battiamo noi per far rispettare i diritti del nostro popolo, chi lo farà mai?”.
Mr.Ali s’incammina per le vie del Cairo con la stessa risolutezza con la quale porta avanti la sua battaglia. Le sue parole – e forse più i suoi silenzi – la dicono lunga sui sacrifici a cui un uomo deve andare incontro per difendere i propri diritti e quelli della propria gente.
Sebbene questa sia una storia mille volte raccontata, continua ad essere una grande lezione per tutti coloro che, dall’alto dei propri scranni, hanno la pretesa di insegnare a parole che cosa sia la democrazia. Dimenticandosi di chi, armato solo dei propri ideali, la democrazia cerca di costruirla dal basso. Pagando troppo spesso di persona.