Alba della Legalità, il coraggio civile esiste
non è gente che vuole apparire, gente che si fa splendida del proprio impegno, della propria lotta. In un’ Italia che spesso si vanta di qualsiasi patacca
Così, quando ho sentito questo nome, Premio Alba della Legalità, questo nome così bello, così pregno di significati edificanti, e ho saputo che lo aveva ricevuto un caro amico giornalista, Rino Giacalone, mi sono voluta documentare, e ne ho voluto parlare.
Ho contattato Antonella Borsellino – figlia di Giuseppe e sorella di Paolo Borsellino (omonimo del giudice e ucciso nello stesso anno dalla mafia), del presidio “Libera associazioni nomi e numeri contro le mafie – Presidio Giuseppe e Paolo Borsellino – S. Margherita di Belìce e Montevago”, che ha creato il premio e da quattro edizioni lo conferisce a chi si è distinto per meriti contro la morale mafiosa – e mi sono informata.
Ho scoperto un bel po’ di cose e persone di cui vale la pena parlare, su scala nazionale, ma magari nessuno lo fa. Perché la gente di cui si parla non è gente che vuole apparire, gente che si fa splendida del proprio impegno, della propria lotta. In un’ Italia che spesso si vanta di qualsiasi patacca.
Allora, dopo aver raccolto da Antonella queste informazioni, ho voluto sentire anche Rino Giacalone, e fargli una piccola intervista. Tutto sommato ci conosciamo da vent’anni, e non ho mai parlato con lui della sua idea di professione giornalistica.
Proprio in questi giorni, in cui assistiamo alla polemica su chi siamo, che coraggio abbiamo di dire la verità, di difendere la nostra espressione, mi è parso importante far sentire alla gente che non è vero che siamo tutti dei codardi che non ci mettiamo in gioco. No cari, non è vero. Gente che si mette in gioco ce ne sta, eccome.
Ma di loro si parla poco o niente.
Quindi, eccomi qui. Con una storia edificante, con un po’ di gente che ha coraggio, di cui, finalmente, parlare.
Premio Alba della Legalità
La quarta edizione del Premio Alba della Legalità quest’estate è stato conferito al procuratore di Trapani Marcello Viola, ai giornalisti Piero Messina e Rino Giacalone, all’imprenditrice Elena Ferraro, al Comitato AddioPizzo che in questi dieci anni ha segnato, per la città di Palermo e per tutti i siciliani, il risveglio dalla lunga acquiescenza al racket delle estorsioni, e a Nicola Clemenza che onora la memoria di Rita Atria nella sua stessa terra.
Che cosa significa questo premio
“L’Alba della Legalità” simboleggia un processo di radiosa liberazione dai preconcetti mafiosi, che vengono quindi, con la forza di idee sane, spazzati via.
Il riconoscimento ha il fine di far conoscere le storie, i nomi e i cognomi dell’antimafia e della legalità, per plasmare il linguaggio universale attraverso la libertà di pensiero e la cultura antimafiosa e antiomertosa.
Alba della Legalità ha lo scopo di fare conoscere le storie, i nomi e i cognomi dell’antimafia e della legalità, col fine di plasmare il linguaggio universale attraverso la libertà di pensiero e la cultura antimafiosa e antiomertosa
Si vogliono, altresì, ricordare il coraggio e le idee che sono vissute nei veri eroi del nostro tempo, che vivono, attraverso gli occhi della memoria storica e attraverso iniziative socioculturali, e che vivranno attraverso le future generazioni.
Il premio è a cura dell’Associazione Antimafia Giuseppe e Paolo Borsellino, imprenditori vittime innocenti della mafia, che si presenta con lo scopo di favorire la cultura in tutte le sue espressioni e promuovere il territorio con tutte le sue bellezze e la sua storia, instaurando così sinapsi tra la cultura dell’antimafia e la tradizione storica e culturale delle Terre Siciliane.
Ma parliamo, finalmente, con Rino Giacalone:
Rino, qual’è il riflesso più doloroso per la vita privata delle tue scelte giornalistiche, se ce ne sono?
Scegliere di fare questa professione significa doversi considerare perennemente in servizio; già questo fa comprendere che gli spazi di vita privata sono ridotti, giammai assenti però. Facendo il cronista nella mia terra, la Sicilia, vado incontro non tanto a pericoli, quelli purtroppo ci sono sempre, quanto a domande che mai vorrei sentirmi fare. Qui la domanda che di solito viene posta al giornalista direttamente o indirettamente, è questa: “Tu a cu apparteni”, in italiano “Tu a chi appartieni”. La gente pensa che il tuo lavoro risponda a qualcosa o a qualcuno. Quando il tenore della notizia scritta è parecchio rilevante, c’è sempre chi è lesto a insinuare nel lettore il dubbio che ciò che scrivi sia commissionato o abbia avuto un ispiratore. Ecco, questo mi suscita dolore. La penso come Walter Tobagi: quando il giornalista ha una notizia di rilevanza pubblica, accertatane la fondatezza la scrive, ha il dovere interiore di scrivere.
Quando ci siamo conosciuti, negli anni novanta, avevi per così dire un posto “fisso” a un giornale, quindi hai scelto la libera professione. L’hai fatto per poterti sentire libero di agire all’interno del tuo territorio in modo consono alla ricerca di legalità e di supporto alla lotta contro la criminalità organizzata? E’ stata una scelta effettivamente consapevole, o come vorresti tu descrivere il tuo percorso di giornalista?Profittando della strategia mafiosa, della così detta “sommersione” (la mafia che dopo le stragi ha messo a tacere le armi) ci hanno detto spesso, sempre dal mondo istituzionale, che la mafia era vinta
Il mio percorso non lo considero concluso ma ancora in corso. Devo dire che ho lasciato “La Sicilia”, dove avevo un contratto a tempo indeterminato, cosa assai rara nella nostra regione. Sapevo di scrivere per un giornale la cui direzione ogni giorno ti induceva a lavorare nonostante alcuni, chiamiamoli “pregiudizi”; molte delle volte che c’era qualcosa d’interessante per la cronaca era una lotta, c’erano discussioni, ma alla fine si scriveva, ho scritto. Mi sono illuso che i sostegni che mi giungevano da altri colleghi fossero sinceri. Invece ho scoperto che non era proprio così. Quando però il clima nella sede in cui lavoravo, per ragioni che voglio continuare a pensare siano state solo personali, non fu più sereno, ho deciso di lasciare.
Ad ogni buon conto non mi sono mai ritenuto e non credo di essere un guerriero con la penna. Ritengo di avere scritto e scrivere ogni giorno in piena libertà. Certo spesso mi ritrovo ad essere spina nel fianco per qualcuno e la cosa non mi spiace, tanto più se quel qualcuno si ritiene intoccabile. Se do fastidio, vuol dire che ho visto giusto. Non voglio essere chiamato, come qualche volta è purtroppo successo, portavoce di magistrati o investigatori, e poi magari quando davvero la cosa merita la qualifica di portavoce non la si attribuisce a chi facendo il giornalista è stato semmai strumento di criminali mafiosi, di complici della mafia. A Trapani fa scandalo se un giornalista passeggia con un poliziotto o amabilmente cena con un magistrato. Ma se un prefetto siede al tavolino con politici, imprenditori, mafiosi, magari non si scandalizza nessuno, nemmeno alcuni giornalisti.
L’esperienza trentennale oggi mi porta a dire che i giornalisti da queste parti, in queste latitudini siciliane e trapanesi, nella buca delle lettere non trovano la velina delle procure o degli investigatori, ma quella dei difensori dei mafiosi, e si tratta di soggetti che poi magari senti parlare o vedi scrivere in modo decisamente ipocrita di legalità e lotta alla mafia.se un prefetto siede al tavolino con politici, imprenditori, mafiosi, magari non si scandalizza nessuno
Oggi sono tornato a svolgere a tempo pieno il mio lavoro di funzionario in un ente pubblico, l’attività giornalistica è svolta in funzione esclusivamente pubblicistica. Ho scritto con il Fatto Quotidiano, adesso scrivo per La Stampa. L’interesse resta lo stesso, la cronaca nera e giudiziaria. La Stampa per la verità mi ha anche dato modo di occuparmi di altre vicende della cronaca politica e sociale, c’è sempre da raccontare. Dirigo due giornali online, Alqamah e Corleone Dialogos, collaboro con il mensile siciliano S e col sito Livesicilia.it, proseguo il mio lavoro con Narcomafie e Libera Informazione e mi piace ricordarmi di avere avuto l’onore di essere uno dei “giovani” redattori del compianto maestro del giornalismo Roberto Morrione. A lui mi ispiro, o cerco di ispirarmi ogni giorno, usando la penna, ispirarmi al suo “fai quel che devi, accada quel che può”.
Sei stato querelato più d’una volta per le tue affermazioni e le tue denunce contro personaggi “importanti” del tuo territorio. A quali delle campagne che hai seguito e/o appoggiato, come per esempio il processo Rostagno o il riconoscimento della figura del Prefetto Sodano, ti senti maggiormente legato?
Il mio legame più forte è quello con il prefetto Fulvio Sodano. Per decenni in tanti abbiamo scritto raccontando di questo territorio, di situazioni scandalose che spesso venivano da settori delle istituzioni. Davanti ai morti ammazzati, personaggi importanti hanno sostenuto che la mafia non esisteva.
Profittando della strategia mafiosa, della così detta “sommersione” (la mafia che dopo le stragi ha messo a tacere le armi) ci hanno detto spesso, sempre dal mondo istituzionale, che la mafia era vinta. In quegli anni cruciali, l’allora prefetto di Trapani (2001- 2003), Fulvio Sodano, ci ha dimostrato che non solo la mafia restava viva e vegeta, ma che aveva dato l’assalto per la riconquista dei beni confiscati.ci hanno detto spesso, dal mondo istituzionale, che la mafia era vinta. Fulvio Sodano ci ha dimostrato che era viva e vegeta
Oggi tutti parlano di questo assalto, per fortuna respinto, ma questo è avvenuto grazie proprio all’opera di Fulvio Sodano. A Trapani si è schierato contro i poteri forti, contro quei poteri che hanno fomentato le grandi collusioni tra mafia, politica e impresa. Ha sfidato la massoneria, si è sottratto ai “consigli” dell’allora sottosegretario all’Interno senatore Tonino D’Alì. Il prefetto Sodano fu punito da un trasferimento deciso in ventiquattro ore dall’allora Governo Berlusconi. Sempre al prefetto Sodano, un sindaco negò la cittadinanza onoraria sostenendo che da queste parti l’antimafia è peggio della mafia. Ho civilmente protestato con un mio scritto per questi giudizi, e un giudice ha ritenuto che il mio scritto ledesse la morale di quel sindaco, l’oggi deputato regionale e componente dell’antimafia regionale, onorevole Girolamo Fazio, e mi ha condannato. Ho appellato la sentenza, ma trattandosi di una querela in sede civile, non ho potuto avvalermi di importanti testimoni per confutarla.
Ho anche seguito molto da vicino, insieme alla famiglia del giornalista, il processo per il delitto di Mauro Rostagno, con le due inequivocabili condanne all’ergastolo inflitte dalla Corte di Assise nei confronti dei boss mafiosi Virga e Mazzara (quest’ultimo un killer che il 23 dicembre 1995 non esitò a uccidere un agente di polizia penitenziaria, Giuseppe Montalto: quella morte doveva essere il regalo di Natale dei boss liberi a quelli in cella).nelle periferie d’Italia in generale, c’è una informazione che ogni giorno deve combattere per la sua libertà. Ma non tutti davvero vogliono portare avanti questa battaglia.
Il delitto Rostagno ci ha consegnato lo spaccato della storia trapanese degli ultimi trent’anni. E cioè quella storia fatta di astio, odio dei mafiosi verso i giornalisti, per i giornalisti che come Rostagno desideravano solo raccontare. Quella morte è servita per fare alzare qualche bavaglio.
Non mi sorprendo per il silenzio sceso attorno alla decisione processuale che mi riguarda, silenzio sceso a Trapani ma devo dire non altrove; nemo profeta in patria?
Mi fa male invece il silenzio sceso sul processo per il delitto Rostagno. Spero che il deposito delle motivazioni di questa sentenza faccia aprire un serio dibattito all’interno del mondo dell’informazione locale. Ma ci sono segnali che mi inducono a dubitare che ciò possa davvero avvenire.Qui e non solo qui devo dire, nelle periferie d’Italia in generale, c’è una informazione che ogni giorno deve combattere per la sua libertà. Ma non tutti davvero vogliono portare avanti questa battaglia.
Qual è, per un giornalista che ha scelto l’impegno antimafia, la qualità fondamentale della propria penna?
Non può esistere un giornalista antimafia, un giornalista che sceglie l’impegno antimafia. C’è il giornalista e basta. Può invece esistere il giornalista mafioso, il giornalista che frequenta l’area grigia. Io ho scelto l’impegno di raccontare. Raccontare quello che ascolto in un’aula di Tribunale, che ascolto parlando con le mie fonti, parlando con i cittadini. Sembra banale ma invece oggi è cosa ardua, perché talvolta a smentirti è il collega, anche quello della porta a fianco. La qualità che cerco di perseguire è solo quella del raccontare. E qui, tornando al processo per il delitto Rostagno, il giornalista che racconta può essere una “camurria”, come lo fu Rostagno che per questa ragione fu ammazzato, una “gatta da pelare”, e non solo per un mafioso, ma anche per colleghi o cittadini che sostengono che tra mafia e antimafia vi sia una posizione intermedia, occupata da chi non vuol schierarsi.Non può esistere un giornalista antimafia. C’è il giornalista e basta.
Se si è cittadini nel modo pieno, come preteso dalla Costituzione, si deve essere per forza cittadini contro le mafie. Ecco, se mi si deve definire, preferisco questa definizione: cittadino prima, giornalista dopo.
Vorrei vederle sorridere di più le mie figlie, e non c’entra qui il tempo che riesco a dedicare loro io come genitore: c’entrano purtroppo i mali di questa società, le insidie che restano sul loro presente e sul loro futuro
Ti è stato assegnato il premi Alba della Legalità, parlaci di questo premio dal tuo punto di vista
E’ stato emozionante ricevere all’ombra del Palazzo del Gattopardo di Santa Margherita il premio che prima di me e con me ha avuto illustri premiati. Emozionante tanto più, se mi consenti una battuta, perché a leggere la motivazione è stata un sindaco, quello di Santa Margherita Belice, e devo dire che solo in rarissime occasioni un sindaco ha avuto per me parole di encomio!
Una bella emozione, che giammai potrò mai cancellare. Il premio mi è stato consegnato da Antonella Borsellino, uno dei tanti familiari di vittime delle mafie. In quelle giornate si parlava molto di abbracci che avevano suscitato polemiche e scontri anche all’interno dell’antimafia: io quella sera ho risposto abbracciando Antonella. In tanti anni di lavoro moltissimi sono stati i familiari che ho incontrato. Paradossalmente, loro ogni giorno chiedono aiuto e sostegno; io posso dire di essere testimone di quanta forza loro danno ogni giorno a noi tutti, giornalisti e non solo. Certo, l’impegno con Libera mi ha agevolato in questi incontri ma non ho mai sfondato porte aperte. Giustamente i familiari vogliono conoscere e capire chi hanno di fronte; ma quando si aprono donano gioia, e il dolore è tuo quando ti rendi conto che non puoi dare tutto quello che loro si attendono: verità e giustizia.
Quali e quanti spazi privati ti rimangono nel quotidiano? La nostra rivista parla di Emozioni Quotidiane, qual’è per te l’emozione quotidiana più importante?
Spazi personali ne possono rimanere pochi ma, alla fine, di tutto mi ripaga il sorriso che mi donano le mie figlie, anche per i pochi attimi in cui, durante una giornata, ci possiamo vedere. Vorrei vederle sorridere di più, e non c’entra qui il tempo che riesco a dedicare loro io come genitore: c’entrano purtroppo i mali di questa società, le insidie che restano sul loro presente e sul loro futuro.
Ecco, il loro sorriso è la mia emozione quotidiana.
Grazie Rino, e complimenti a nome della nostra redazione per il modo in cui interpreti la professione. Siamo con te. E ti auguriamo mille di queste emozioni.