Il giardino inclinato dei miei alberi di primavera
Vivo nella mia casa da quando sono nato. Circa dodici anni fa, con il trasferimento dei miei genitori, è iniziata la vita da “uomoscapolochevivedasololavastirapuliscerifaccioillettostingolabiancheria“. E chi più ne ha più ne metta! Pfui!
Questo nido non lo lascerei mai. Non è una questione di pigrizia, credetemi. E’ proprio affetto. Il caffè del mattino lo preparo con tapparella alzata e tende aperte. Non potrei diversamente, per quanto spesso dimentichi di non essere abbigliato a dovere o forse non abbigliato per niente!
In ogni caso, quindi, devo aprire. Al di là del mio balcone c’è uno spettacolo che devo vedere ogni giorno: è una carezza, un conforto, una certezza. Ai piedi della collina un anello di terra e sabbia circonda le acque immobili di un lago vulcanico. Poco più avanti si apre il mare, infinito, a volte lucente, a volte opaco, cattivo o invitante a seconda di quanto l’abbiano stuzzicato i venti.
Capo Miseno con la sua storia millenaria, con le sua pareti a picco che narrano di guerra, di eroi e di eruzioni maledette
Il ricordo più bello, però, nulla ha a che vedere con Capri o Capo Miseno. Sin da bambino, dovevo percorrere una stradina che da casa mia, costeggiando una campagna fatta a terrazze degradanti verso il mare, mi portava a scuola. Un immenso giardino inclinato che io amavo definire bosco, in parte coltivato a vigna, in parte a frutteto. Era il mio calendario personale. Scandivo le stagioni a seconda dei colori delle foglie.
Ho sempre detestato l’inverno, forse perché, oltre al freddo, scoloriva del tutto il mio giardino inclinato. Avevo paura per gli alberi, ridotti a porcospini con le radici, temevo che morissero per il gelo. Tanti rami secchi e spogli, neppure una fogliolina. Riuscivo a vedere attraverso quelle chiome che amavo invece ammirare nel loro fulgore estivo.
L’apice della felicità lo raggiungevo in primavera. Mia madre apriva la portafinestra e l’aroma del caffè si mischiava al profumo di mille alberi in fiore: albicocchi, peschi, prugni, un’orgia di bianco e rosa. E che spettacolo facevano con il vento.
l’aroma del caffè si mischiava al profumo di mille alberi in fiore: albicocchi, peschi, prugni, un’orgia di bianco e rosa
Rappresentavano la fine del freddo, l’arrivo dei colori, la fine della scuola, abiti leggeri, piedi nudi, calzoncini corti, facce arrossate per le corse tra amici, acqua gelata a rinfrescare i capelli sotto la fontanina all’angolo della strada, terra fra le mani, farfalle da acchiappare, lucertole da inseguire, e se proprio si era fortunati accadeva l’evento.
Avvistavamo una biscia, l’essere più temuto da noi bambini. Un misto di terrore e curiosità ci respingeva pur inchiodandoci sul posto. Si faceva capannello, le biciclette di lato e noi tutti insieme, a contatto, spalla a spalla. Un po’ ci si spingeva, un po’ ci si abbracciava. L’importante era fare muro contro il mostro che lento lento, appena svegliatosi dal letargo attraversava la strada. Che scherzi fa la mente. Noi terrorizzati da chissà quale convinzione, mentre quello davvero in pericolo era proprio lui: il serpente. Sarà stata l’educazione cattolica? La faccenda della mela? Non saprei.
Gli anni si sono consumati più velocemente di quanto avessi desiderato. Di calzoncini corti, terra fra le mani e capelli bagnati solo il ricordo. La frenesia del mio stato diuomoadultoimpegnatofigopseudointelletuale mi distrae davvero troppo. Che colpo. Quel terreno è stato venduto. Me ne sono accorto quando pochi giorni fa, andando a prendere l’auto, ho violentemente litigato con un nastro biancorosso che non voleva saperne di sparire dalla mia faccia. Avevano delimitato la proprietà. Il mio giardino inclinato circondato da una infinita fettuccia di plastica biancorossa.
Mi sono accorto che non guardavo da tempo quei terrazzamenti rivolti ad est, baciati da sempre dal sole sorgente.
Il canneto ridotto ad un enorme cumulo di giganteschi stuzzicadenti giallastri. Pezzi di tronco ordinatamente cumulati in attesa di essere portati via. Oddio, un cimitero, un deserto. Il mio calendario naturale sparito, defunto, finito, annientato. Non ci saranno più tempeste di petali, aroma di caffè mischiato al profumo dei fiori. Non ci saranno più i colori dei miei alberi di primavera. Che vuoto, che assenza.
Ero solo. Avevo voglia di chiamare qualcuno, di chiedere spiegazioni. Ma chi avrei potuto chiamare, chi avrebbe potuto spiegarmi? Mi facevano male le tempie per come tenevo sgranati gli occhi. I miei colori non sarebbero tornati. Non mi è rimasto che fare retromarcia, uscire dal parcheggio e andare via.
Arrabbiato con il mondo, arrabbiato con me stesso, deluso dalla mia distrazione. Troppa fretta, troppe finte necessità. Spero di innamorarmi ancora di un giardino inclinato, ma non sarà di certo lo stesso amore.