Brigantezza e nobiltà, una metafora
New York, Estate
Tu, ancora giovane e del tutto inesperta, europea e incredula, fondamentalmente sprovvista della sproporzionata self – confidence necessaria per avere una reazione adeguata al momento
Posso raccontare questa storia grazie al fatto che – per strane congiunzioni astrali delle quali non so spiegarvi nulla – ho avuto la fortuna per una parte della mia vita di vedermi assegnati compiti particolari e del tutto inaspettati.
Queste mansioni che mi furono affidate, e che lasciarono questa storia nei caveau della mia memoria, appartennero alla fase americana della mia vita. Era ancora un’epoca in cui una “fase americana” lo era fino in fondo. Intendo dire che il famoso “you can do it” funzionava. Incontravi qualcuno mentre stavi facendo qualcosa, qualcosa che rientrava nelle tue competenze professionali basilari, diciamo. A questo qualcuno piacevi, piaceva il tuo modo di svolgere il tuo lavoro. Questo qualcuno era una persona che contava qualcosa, e improvvisamente pensava di te che eri la persona adatta a cui affidare una mansione. Quindi la persona che contava qualcosa, dopo averti invitato ad un concerto della moglie violinista alla Carnegie Hall e poi ad una cena al “Le Cirque”, mentre eravate seduti in 3 (la persona che contava qualcosa, la moglie violinista e tu) alle 3 di notte del giorno 3 agosto davanti a un bicchiere di champagne, ti proponeva di seguire un progetto. E te lo spiegava nei dettagli, in preda al tipico entusiasmo del cittadino israeliano naturalizzato americano e manager di un importante canale televisivo.
Tu, ancora giovane e del tutto inesperta, europea e incredula, fondamentalmente sprovvista della sproporzionata self-confidence necessaria per avere una reazione adeguata al momento, spalancavi talmente gli occhi che, se fossi stata portatrice di lenti a contatto, te le saresti ritrovate dentro al piatto di aragoste nane che ti avevano appena collocato in fronte (con tua grande sorpresa, dato che non le avevi neppure ordinate, e che inoltre avevi accettato solo perché certa di non doverle pagare di tasca propria). Per fortuna a quell’età avevi una vista da aquila.
Diciamo pure che questo è il prologo di una storia. Una storia che potrebbe proseguire in una torrida estate newyorchese di molti anni fa. Con i depositi dell’acqua sui tetti della città a fare da protagonisti. Con le temperature così alte da riuscire a scoraggiare il venti per cento della popolazione di Upper Manhattan dal fare il solito jogging dell’ora di pranzo. Così alte da costringere gli abitanti di Brooklyn a fare grigliate sulle scale anti-incendio fino a mattina, e i pusher della mafia italo-newyorchese a girare in motoscafo sull’East River e sull’Hudson invece che in Rolls-Royce. Una storia che potrebbe essere una metafora di come le grandi occasioni fuori da casa nostra non solo si presentino improvvise e inaspettate ma, se colte in tempo, siano veramente portatrici di novità e svolte. Ma no. Non prosegue qui la storia e non è questa la metafora.
Roma, Inverno
Cercavo location storiche per una serie di concerti di musica classica, che dovevano essere filmati e costituire una serie televisiva dedicata all’Italia e ai suoi tesori d’arte
Prendemmo stanza proprio davanti S.Giovanni in Laterano, mi prestarono un appartamento amici di amici che avevo a loro volta ospitato a casa mia. L’appartamento era grande e luminoso, radical chic a sufficienza, pieno di libri e cataloghi di mostre, di dischi e di strumenti musicali, di mobili di design e di ricordi viaggi. Ero felice di non dover stare in albergo, il periodo di impegno non era così breve e dover abitare gli alberghi conferiva ai giorni un che di precario, anonimo. Il posto era perfetto, era il set ideale di questa mia esperienza. Chiamiamolo pure set, visto che di set mi dovevo occupare. Visto che tutto mi pareva un set e questo lavoro era capitato come nei film. Ciak, si gira.
Cercavo location storiche per una serie di concerti di musica classica, che dovevano essere filmati e costituire una serie televisiva dedicata all’Italia e ai suoi tesori d’arte. Il tutto sarebbe andato in onda sul canale TV americano fondato da un grande produttore e regista di cui tutti, sin da bambini, sappiamo il nome.
Avevo già avuto la fortuna di fare la stessa ricerca prima al nord, intorno ai grandi laghi ricchi di ville che allora, molto prima che il mitico George promotore di caffè se ne comprasse una, nessuno si filava, e nei teatri storici quali il meraviglioso Olimpico di Vicenza e Farnese di Parma. Quindi mi ero trasferita nella mia regione, la Toscana, scoprendo le meraviglie dei palazzi fiorentini e delle residenze nobiliari di campagna.
Prima di spostarmi al sud facevo doverosa tappa nella capitale. Avevo una guida, una signora elegante e assolutamente esperta di modi diplomatici, necessari per ottenere i permessi d’ingresso in alcune residenze allora non aperte al pubblico o addirittura proprietà privata di grande dinastie nobiliari. Lei stessa discendeva in linea diretta da una delle prime esponenti femminili della pittura europea, e ne portava in modo fiero il cognome. Cominciammo con Palazzo Farnese, quello dove Tosca accoltellò Scarpia per intenderci, sede dell’ambasciata Francese e le cui ricchissime sale storiche a quel tempo non erano aperte al pubblico. Il giro del centro proseguì in dimore da sogno, il Palazzo Colonna, i palazzi dei Borghese e dei Barberini, un vero tuffo in una bellezza “grande” prima che qualcuno la definisse tale.
Poi la guida iniziò a essere particolarmente insistente sulla necessità di visitare un vero e proprio castello sui colli fuori Roma, una dimora unica e affascinante, che dovevamo assolutamente vedere. Un set perfetto, tant’è che attualmente vi si girava appunto un film. Metà palazzo era presidiato da Pasquale Squitieri impegnato con le riprese di una pellicola sui briganti.
I briganti e i concerti da camera non mi parevano assimilabili, ma alla fine ci decidemmo ad andare.
Dopo ore di raccordo anulare, ci gettammo sulla Tuscolana e costeggiando Frascati e i castelli ci spostammo in direzione di Velletri.
Arrivammo al borgo suggestivo e arroccato su un colle. Parcheggiammo l’auto fuori paese e salimmo, col cameraman alle spalle, la china che saliva fino al portone d’ingresso. Il feudo era passato, dopo il tracollo economico di una grande dinastia di nobili italiani, nelle mani di un’altra, che aveva dato i natali ad influenti cardinali e Papi, ed ancora oggi si trovava in possesso di quella casata. La guida ci aveva detto che l’attuale proprietario aveva rivestito per molti anni ruoli diplomatici in giro per il mondo e di recente si era ritirato con la moglie e la più giovane delle figlie a vivere all’interno della antica proprietà.
Al portone ci accolse un signore corpulento e rubizzo vestito con un maglione di stile irlandese, più adatto a una gita in montagna che non al soggiorno sui colli romani. Fugando dubbi sulla sua identità ci disse subito di essere il padrone di casa. Si scusò perché un’ala della dimora era appunto prestata al set di Pasquale Squitieri e quindi molto disadorna, fredda e buia. L’avremmo attraversata velocemente per andare nella parte abitata da loro, dove la moglie si era permessa di organizzare una semplice colazione in nostro onore.
Così facemmo: passando per le stanze gelide e povere di mobilia dove si girava, finalmente arrivammo in una saletta – qui gli scuri erano aperti e la luce mostrava qualche elemento di arredo – e da lì a una piccola biblioteca, piena di volumi d’epoca. Strano che alcuni di essi, nonostante i molti scaffali vuoti, fossero ammassati in cassette della frutta. Pensai a una riorganizzazione dei volumi, un inventario. Ci stava. Ancora più strano che nella saletta accanto, dotata di un grande camino e che accedeva alla sala da pranzo, si trovassero le stesse cassette della frutta con qualche libro dentro. All’interno del camino stesso, acceso, attualmente bruciavano invece di ciocchi, miseri legnetti. La sala da pranzo si affacciava sulla vallata con un bovindo arricchito di vetri d’arte decorati. La moglie e la figlia raggiunsero la nostra piccola comitiva. Fummo invitati a sederci. Gli ospiti ci parlarono dei luoghi del mondo dove avevano trascorso gli anni di servizio diplomatico. I piatti sui quali mangiavamo erano quelli di vetro stampato che si acquistano nei supermercati e si usano per le cene informali. Le posate invece erano di un alpacca consunta. Dopo poco che sedevamo al tavolino, cominciai ad essere raggiunta da spifferi gelidi che provenivano dal bovindo. Portai lo sguardo sulle vetrate per vedere se qualche finestra era aperta e mi accorsi che molte delle vetrate erano sfondate anzi parte dei vetri erano mancanti, sia nella parte alta che in quella laterale. Il tenue calore che proveniva dal camino della stanza accanto era incapace di riscaldare quell’ambiente. Eravamo come all’aperto, affacciati sulla vallata. Dopo un poco ero completamente ghiacciata. Cominciavo a capire perché il padrone di casa aveva il suo migliore maglione irlandese!
La conversazione si spostò sulle nostre esigenze e intenzioni. La famiglia ci fece capire che sperava molto nella nostra richiesta di disponibilità per la loro dimora, che avrebbero fatto qualunque cosa per facilitare il nostro lavoro; l’ex diplomatico si offrì come interprete, traduttore, accompagnatore, factotum, dato che parlava perfettamente inglese e la nostra produzione era americana. Se avessimo addirittura voluto accettare di ambientare più puntate lì, ci avrebbero fatto un prezzo di favore. Alcune delle sale dove ora giravano il film erano riccamente affrescate e dopo che vi fosse stata riportata dentro la mobilia ci sarebbero sembrate certamente adeguate ai nostri scopi.
Poi successe qualcosa di imbarazzante. Io chiesi di andare al bagno. Per un po’ scese un silenzio incomprensibile. Poi i membri della famiglia si scrutarono tra loro. Alla fine la figlia, sorridendo mestamente, si offrì di accompagnarmi. Mentre percorrevamo un lungo corridoio si scusò per il fatto di dovermi portare nelle stanze della servitù. Gli altri bagni erano usati dalla produzione del film.
Aprì una porticina tagliata in un muro e mi fece entrare. Al di là di quella si apriva un intero appartamento, c’era una vasta cucina, un divano coperto da molti teli, una tv, una tavola da stiro aperta, e porte che da lì sembravano condurre ad altre stanze. Su divano era seduta una signora anziana, con in mano del lavoro a maglia. Stava sotto una enorme lampada perché la stanza aveva pochissima luce. Fui fatta entrare nel bagno. Era vecchio e trascurato, il rubinetto gocciolava, le salviette per asciugarsi le mani erano tutte bucate.
Quando tornai al mio posto nel bovindo la conversazione languiva, finché la nostra guida non volle, con sensibilità e rispetto, metterci a parte della difficile situazione economica in cui si trovava la famiglia, costretta a salassarsi dei pochi introiti che restavano per pagare le tasse e i diritti di successione della storica magione.
Li chiamarono… briganti!
Squitieri mette in luce altri aspetti di questa controversa pagina storica come i contatti tra governo sabaudo e la criminalità organizzata per acquietare le rivolte
Il film di Pasquale Squitieri che fu girato nel paese e nel palazzo di cui narro in questa storia, fu ritirato dalle sale di proiezione pochi giorni dopo la sua uscita. Il motivo ufficiale fu il poco richiamo commerciale. Tutt’oggi è difficile trovarne copia. Di fatto il film fu accusato di essere un film revisionista, volto a raccontare un’altra versione dei fatti avvenuti poco dopo il risorgimento, in special modo nel Meridione. Gli eventi narrati forniscono un quadro generale della situazione nel periodo posteriore all’unità, segnato dalle atrocità che l’esercito piemontese perpetrò nei confronti delle popolazioni lucane. Tra queste stupri, eccidi di massa compiuti in nome del diritto di rappresaglia e decapitazioni di alcuni briganti, le cui teste furono messe in mostra per intimorire le popolazioni locali.
Squitieri mette in luce altri aspetti di questa controversa pagina storica come i contatti tra governo sabaudo e la criminalità organizzata per acquietare le rivolte e le conseguenze negative dell’unità d’Italia, quali la questione meridionale e l’emigrazione. L’episodio fa riferimento ad una pratica effettivamente utilizzata, (e oggi documentata ) durante la repressione del brigantaggio. Il protagonista della pellicola è il rivoltoso, poi definito brigante, Carmine Crocco, che dopo aver combattuto con Garibaldi e sperato nell’unità d’Italia scopre che il potere ha sempre la stessa faccia: con il nuovo governo sabaudo, la situazione economica e sociale non è affatto cambiata e la classe dominante ha le mani libere per speculare ed opprimere la gente. Crocco si lascia assoldare dai Borbone per favorire la restaurazione. Tradito dai suoi stessi alleati, che riescono a portare i sabaudi nel covo con l’intenzione di sconfiggere il brigantaggio, e costretto alla resa, sceglierà la via della fuga.
Una metafora
Tutto era già su un baratro, agli spifferi, come nel bovindo quel giorno
Mi sembra che questa visita in quel luogo e tutta la storia che vi trovai dentro siano una grande metafora dell’Italia di oggi, e raccontarla, questa storia, mi permette dire qualcosa di una realtà difficile oramai per me da commentare.
Tutte le prese di potere, e le azioni di potere, storicamente, si basano nel nostro paese sulla connivenza con la criminalità organizzata, che da una parte viene sfruttata, e dall’altra combattuta.
Così come lo stesso potere si rende connivente del degrado del patrimonio artistico-culturale, da una parte, e lo piange dall’altra.
Solo una cosa non avevo capito allora. Che ad essere in braghe di tela non era solo la nobiltà i con i grandi possedimenti, bensì era tutto il nostro sistema economico, il nostro paese coi suoi tesori, con le ricchezze culturali. Tutto era già su un baratro, agli spifferi, come nel bovindo quel giorno. Tutta quella decadenza, era già penetrata nelle fibre della società e ci avrebbe riguardato tutti quanti, molto presto.