Treno locale numero 69, proveniente da…
Oggi quel tipo di incontro non si fa più. Non si impatta in modo così sconsiderato in una donna. I treni sono molto più sicuri. La protezione dei cellulari non permette altri sguardi indagatori se non quelli lanciati attraverso l’illusione dello schermo. Gli altri lì fuori sono noiosi, e costa fatica qualsiasi tipo di approccio. Al massimo ti posso concedere un piccolo sorriso di circostanza, un: – Sì, quel posto è libero… – Gentilezze relative, involontarie forme di autoconservazione del proprio spazio vitale. O almeno è quello che intendo io a vedermi dentro una massa anonima, migrare ogni giorno da un punto A a quello B e ritorno.
Sì, sono stato pendolare sui treni, si capisce. Oggi con l’auto è diverso. Nell’abitacolo c’è dentro un tizio che ha le tue fattezze, ascolta la radio, stazioni improbabili, notiziari, consigli, oroscopi, tutto il meglio per farti ammosciare l’uccello. Il calo del desiderio, il viale del tramonto. Metafore. Fatto sta che sei solo e guardi insistentemente la targa di quello che hai davanti, che fa la stessa cosa con un altro tizio che lo precede. E non appaiono né tette né culi su quei numeri, stanne certo.
Poche volte ti è successo che l’ormone agisse in macchina. E quando sei stato solo, sono state seghe. L’idea di scopare tra la leva del cambio che rischia di finirti nel culo, e il corpo di lei che sfiora lo sterzo dove il clacson è pronto a urlare di dolore, ti sconforta, ti deprime, insomma ti ammoscia.
Poi dice che il sesso per gli uomini ha la tendenza a velocizzarsi. Ma sia chiaro, con l’età il rallentamento è anche una necessità. A volte è parte dello stesso piacere. La lentezza diventa bellezza. Allora indugi sui particolari. Il compito non è preminentemente quello di ficcare qualcosa dentro un’altra cosa. Ma aggirare, assediare, comprimere, togliersi lo sfizio. E diventa libidine persino negare all’altro l’accesso alla fonte. Gli uomini arrivano da vecchi a questa forma di seduzione di tipo femminile. Il tempo insegna anche ad un vecchio corpo l’idea che il piacere è pura disciplina mentale.
Il treno di allora (estate degli anni ’80 di riflusso e
disincanto), era l’infernale convoglio in puro stile deportazione di massa che ognuno che sia passato alla comodità dell’automobile, rimpiange come fonte ineguagliabile di ispirazione erotica. L’incrocio tra sguardi, il taccheggio non molesto di quello che di buono e giusto offre almeno il bene della vista, era inevitabile e auspicato. Le compagnie di pendolari affaticati, ma pur sempre allupatissimi, si contendevano le immaginarie spoglie di ragazzotte bene in carne, o di silfidi eteree. La rincorsa al piacere iniziata con la chiacchiera generica, e finita con la richiesta esplicita di mollartela, non si concludeva quasi mai con il risultato sperato: la scopata risolutoria nel bagno lercio del treno. Ma almeno si danzava tutti all’idea.
Ma quel giorno la stranezza di ciò che poi si è trasformato in storia da raccontare in un futuro remoto, agli amici curiosi e vogliosi di sentirtela sparare grossa, ha invaso la mia fantasia al punto da traboccare. I treni di allora erano dotati di scompartimenti, e privi di aria condizionata che nemmeno a immaginarsene uno ora, senza una rivolta armata di un’intera categoria di passeggeri incazzati, ti può restituire il concetto. Il caldo opprimente, il sonno profondo dei viaggiatori in ognuno di questi cubicoli faceva sì che spesso chi voleva fumare si piazzasse nel corridoio a intralciare il passaggio. Ma poi a pensarci bene, la toccatina scappava dalle mani a più di uno di questi esseri schifosi che stava lì appostato nel suo misero agguato. Entrando in uno di questi fornetti individuavi subito la tua momentanea musa ispiratrice di eros e di seghe, preda simbolica, carne da ripassare nella tua testa. Durava all’incirca un’ora, non di più.
Ma poi a pensarci bene, la toccatina scappava dalle mani a più di uno di questi esseri schifosi che stava lì appostato nel suo misero agguato.
Ricordo che quel giorno, all’ora infame della controra che dardeggiava verso i 40 gradi, mi accomodai, si fa per dire, proprio davanti a una di quelle bambolette di plastica che vogliono imitare la porcellana senza del tutto riuscirci. Era attillatissima e alabardata di tacchi d’alta quota, scollatura ombelicare, gonna di pelle nera con lungo taglio strategico, ninnoli e bracciali con metalli capaci di intermittenza luminosa, orecchini di corallo e avorio che richiamavano una bocca con labbra intensamente rosse e denti fosforescenti vicini a essere ordigni radioattivi. Gli occhi esibivano un trucco con geometrie non euclidee a colori cupi. I capelli biondi, la testa reclinata ad arraffare tutto il vento possibile dal finestrino, la rendevano di una bellezza quasi tragica. Fingeva di leggere una rivista di gossip dozzinale. Al suo lato sinistro per tenerlo occupato aveva messo in bella vista di copertina un libro di Pedro Juan Gutierrez, “Trilogia sporca dell’Avana”, e ogni tanto sbuffando si lanciava in un sorriso di quelli che richiedono complicità, ma senza accennare a una parola, proprio verso la mia direzione, e non certamente verso quella dell’uomo che russava rumorosamente al mio fianco. Poi tornava a rimirarsi le foto del giornale che esibivano oltre ai soliti allarmi sulla cellulite della diva tv, bei ragazzoni da accompagnamento, a torso nudo tutti tesi nello sforzo di mostrare il ventre tartarugato quasi fosse un segno delle delizie marine che si sarebbero trovate poco più sotto.
Le sue labbra morse occupavano tutto il mio sguardo. L’ennesima sosta che comportava alzarsi, tirare ancora più giù il finestrino e appoggiare il suo davanzale generoso su quel tagliente saliscendi, mi faceva sussultare. Un rauco pigolio proveniente dalle mie zone erogene mi diede la certezza che quella parte di cervello era capace di distinguere ancora il pieno dal vuoto. E quelle tette riempivano una percentuale rilevante di uno spazio appositamente predisposto, che è spesso desertificato e solitario. Risvegli, rivelazioni, suggerimenti sussurrati dal tuo serpente, l’idea di lei che spalanca le gambe e che si manifesta contemporaneamente nel campo dell’immaginazione, e tutto questo proprio lì davanti a te, mi diedero il senso di un’accelerazione degli eventi a cui non avrei mai creduto.
Ed è lì che cominciarono ad addensarsi i sospetti di truffa, raggiro, adescamento. Tenevo per mano un sogno erotico semplice e a pagamento? Mi dicevo che presto tutto avrebbe preso una piega vicina al mondo degli affari e della finanza.
Ma così non avvenne per via del caldo, del sonno di piombo che appesantiva lo scompartimento, e delle sue mutandine di pizzo bianco. Presto, se si può definire “presto” il tempo erotico, il cui “presto” è sempre orientato sul ritmo metronomico del coito, avvenne che la donna cominciò a toccarsi spudoratamente e senza ritegno. Aveva la certezza che dormissero tutti compreso il me stesso che era lì davanti.
Tenevo per mano un sogno erotico semplice e a pagamento?
Lei seguiva di sicuro l’oscuro dioniso che le dettava la parte, e ad occhi chiusi mi faceva intravedere attraverso la bocca semiaperta quello che riesce impossibile mostrare alla pornostar avvezza alle pose più sguaiate. Ne ero sicuro ora: godeva per sé stessa, non per la mia sciagurata presenza. Ma questo aumentava la forma di piacere che sentivo provenire da un luogo sconosciuto di me che fino ad allora avevo tenuto sbarrato. La porta di uno sgabuzzino malandato e infido dove erano rinchiusi oggetti e altri arnesi da scasso.
Lei ora era capezzoli tenuti ben strizzati con le dita a forbice. Una mano che fruga proprio sotto il giornale che fa da schermo, e le mutandine in vista, alla Mia Vista, la cui parte di sotto era completamente sparita nella fessura che immaginavo umida.
Mutande inghiottite, mio dio.
Il tuo dio padre dell’eros di allora non conosceva il modello tanga, e nemmeno i pantaloni inguinali che mostrano culi debordanti e insipidi come fa il tuo semidio di ora. Quel semidio maori che abbonda di tattoo tra clitoride, grandi labbra e natiche con disegnini alati. Buchi di culo circondati dal nulla, su quel treno di cioccolata calda, ora erano buchi di culo circondati da un senso. Vertiginose colline bianche dove correva il mio cazzo a forma di cavallo.
Tutto questo nel sudore più manifesto che spargeva afrori e molecole adescando il lato primitivo del mio cervello che mandava impulsi e allarmi elettrici, quelli che ora si chiamano SMS (probabilmente allora la metafora sarebbe stata ticchettii telegrafici, segnali di fumo, telefonate a gettone). C’era scritto “Trombala, idiota, o non ti guardo più in faccia, sto facendo il possibile per fartelo venire duro…!”
Ma non avvenne nemmeno questo. Non la trombai, ma verosimilmente l’equivoco fagotto che raccoglievo tra le gambe era ben visibile a parecchie miglia. E a scanso di equivoci, la cosa non risultò nemmeno essere il sogno accaldato che di sicuro stava sognando il mio rumoroso vicino. A lui ogni tanto crollava di peso la testa sul collo, e lui la ricomponeva immaginando proprio magari quello che mi stava accadendo di fronte.
Lei si alzò sorridendo nella mia direzione (ma sentivo che quel sorriso andava oltre me, in un luogo a cui non potevo accedere), si ricompose per quel che poteva in quel corpo che richiedeva di essere lasciato andare senza essere contenuto in nessun involucro, neppure il più lussuoso.
Mi disse quasi con un accenno di rimpianto, un velo di tristezza:
– Beh, io sono arrivata, arrivederci!
Io, dal mio canto, anzi dal cantuccio a cui ero ridotto, le risposi, non senza arrossire, lo confesso come un adolescente che confessi la sua prima polluzione notturna, con un rauco cachinno:
– Arrivederci!
– Stazione di… il treno locale numero 69, proveniente da… e diretto a… è in partenza dal binario…
La vidi inforcare il sottopassaggio in tempo per ammirare l’abbaglio del sorriso che mi inviava come lo specchietto che rifrange una luce che fugge via.
La larga macchia sui pantaloni di lino color corda che indossavo quel giorno dovetti lavarla e asciugare nel bagno. E il controllore che mi stava col fiato sul collo a caccia del portoghese di turno, continuava a urlarmi da fuori “Biglietti!” fino all’arrivo.