I profumi che portano indietro
Partire. Sparire. Andare. Tre verbi. Li ho presi di peso, gettati in valigia, caricati su un treno per arrivare a quella vetta di verde a picco sul mare, dove i limoni crescono come grappoli d’uva. Con me ho solo un cambio di vestiti che getterò via alla prima occasione, la mia carta d’identità per ricordarmi chi sono e come mi chiamo, uno shampoo, un asciugamano di spugna. Non ho voluto nient’altro. A chi come me deve ricominciare non serve memoria. Non servono fotografie, numeri di telefono, regali, oggetti, ricordi. Ho lasciato tutto nella mia vecchia casa dove ho abitato da quando sono nato, 39 anni fa.
Non vi dirò nè dove si trova e neppure com’era, ho dimenticato tutto quando ho serrato le finestre e ho chiuso la porta, dando tre giri di chiave. Ho azzerato il cervello. Scordato. Dimenticato. Rasato al suolo ogni immagine di ieri.
Non vi dirò nè dove si trova e neppure com’era, ho dimenticato tutto quando ho serrato le finestre e ho chiuso la porta, dando tre giri di chiave. Ho azzerato il cervello. Scordato. Dimenticato. Rasato al suolo ogni immagine di ieri. Ogni emozione ancorata in chissà quale remota parte dello stomaco. Adesso sono come un pc resettato, un iPhone rigenerato, pronto a una vita nuova nella quale – ho deciso – la memoria non mi servirà. Voglio solo presente e futuro. Il passato è roba che non fa per me. Non voglio ricordarmi cosa ho mangiato ieri a cena, chi ho incontrato, con chi ho fatto l’amore. Le emozioni – sono convinto – sono stati d’animo talmente intensi e passeggeri che vanno solo vissuti e poi mandati al macero.
Questa sera mi fanno compagnia tramonti eccezionali, il mare che non è mai uguale, scalini da salire, da scendere e dove appoggiarsi, seduti, sotto un limoneto. Ce ne sono moltissimi qua, un giorno proverò a raccoglierli e a farne un liquore, una marmellata, una composta. Non so, deciderò al momento. Ho tutto il tempo del mondo. Ho talmente tanto tempo da non avere neppure un orologio appeso al muro. C’è il sole che mi segna il passare delle ore, che accende i giorni nuovi. Credo che questo mi basti.
Chiudo la luce. Abbasso le palpebre.
Dormo.
L’odore del caffè mi sveglia. La luce che fluttua tra gli spiragli delle persiane e si muove sul pavimento, sul muro bianco della stanza, si insinua tra i tre libri che ho comprato. Il tempo di leggerli e poi li regalerò al primo che incontro per strada, ad un turista con il cappello di paglia, a Lucia, la donna del bar. Lei è una corpulenta signora di cinquant’anni, rosea e rotonda. La pelle lucida. Le mani grandi, come il grembiule che porta addosso, da brava massaia. Ogni giorno ha un fiore diverso tra i capelli. Lei dice che è per ricordarle la primavera, anche quando non c’è.
Abbiamo parlato più volte di questa cosa della primavera, delle lucciole nei giardini, delle giornate che si allungano, della voglia di sbocciare come fiori che noi umani avvertiamo ogni volta che arriva aprile. Io sostengo che sia solo una vana ricerca di felicità, un punto di partenza, appunto.
Eppure ogni volta che tocchiamo questo argomento Lucia appoggia le mani sui fianchi, a mo’ di rimprovero e mi fissa, qualche secondo, senza parlare.
Le sue espressioni, in quegli attimi, dicono molto. Mi diverto a risponderle con lo sguardo, con la stessa complicità che si può avere con una di famiglia. Mi chiedo cosa pensi lei di me, in quei rari momenti in cui non parla, non pulisce il bancone con lo straccio, non prova neppure a infilare le tazzine nella lavastoviglie. Mi guarda e basta, stringe i pugni attaccati tra vita e fianchi.
Oggi l’ha fatto di nuovo. Nell’aria sento profumo di legna, mi dice.
Lucia non stacca i suoi occhi neri dai miei mentre continua a parlare.
“E’ un odore che mi porta indietro nel tempo”. Racconta e non distoglie lo sguardo. Non ha bisogno di buttare gli occhi a destra e sinistra per seguire le mani intente a lavorare, mentre mettono nel frigobar le ultime bottigliette di aranciata amara.
“D’inverno andavamo nella casa sul mare di mia nonna, a quattrocento chilometri da qua. Per scaldarsi serviva la legna e io passavo ore a camminare sulla spiaggia per recuperare legni nodosi, lisciati e scavati dalle onde. Ma quella non era legna buona, era intrisa di umido e di salmastro. Non avrebbe mai bruciato, non ci avrebbe mai scaldato. Così dopo la passeggiata andavamo a comprarla ed io ero affascinata dalle fiamme del camino, dal fumo, dall’odore. Lo respiravo tutto quanto il profumo degli arbusti, la legna che moriva in mezzo al fuoco strillava con un affascinante ticchettio. I sogni più grandi li ho fatti in quella casa, davanti al fuoco“.
“Lucia, bella storia ma come sai io non amo i ricordi. Anzi, non ne ho. Servono solo ad ancorare la vita ad un passato che non c’è più. Non ho bisogno di niente se non del caffè che devi servirmi. Basso, in vetro”.
Lei non mi ha risposto. Ha aperto di nuovo il frigobar. Ha spezzato il ghiaccio con il coltello. Ha inferto lunghi colpi secchi con la lama affilata. Qualche scheggia è volata in aria. Ha spezzato il suo incredibile silenzio.
Lei non mi ha risposto. Ha aperto di nuovo il frigobar. Ha spezzato il ghiaccio con il coltello. Ha inferto lunghi colpi secchi con la lama affilata. Qualche scheggia è volata in aria. Ha spezzato il suo incredibile silenzio.
Lucia ha smesso di guardarmi. Ha caricato la macchina di macinato. Preso la tazzina. L’ha messa sul bancone.
Poi ha semplicemente mosso le labbra. “Sei un pazzo” – mi ha detto. “Non hai niente di buono in serbo per te”.
Ha preso a camminare in su e in giù sulla pedana dietro il bancone del bar, chiedendo a Dio e alla Madonna quale fosse il mio problema. Ha provato pure a interrogare Sant’Antonio ma senza risposta. Poi si è fermata. Ha girato il bancone. Mi è venuta vicina. Ha preso la tazzina del caffè, me l’ha gettata in faccia. Mi ha preso un braccio, tirandomi fuori dal bar con una forza inaudita. Se fossi stato nella mia prima vita l’avrei stesa con un pugno. Le avrei fatto pagar caro quel gesto. Le avrei fatto male. E invece sono rimasto inebetito e mi lascio portare ovunque lei voglia.
“Raffaè, pensaci tu al bar che io ho da fare con questo scimunito“.
Mi ha scaraventato dentro l’auto. Mi ha portato in un campo dove cresce l’uva.
Mi ha gettato tra i filari, premendo le mani a forza contro il mio petto. Una spinta, due, tre, quattro, dieci. E io cammino all’indietro, sottomesso ad una forza più grande di me, con le parole incatenate alla lingua, la bocca secca, la saliva che mi incolla i pensieri.
Mi ha gettato tra i filari, premendo le mani a forza contro il mio petto. Una spinta, due, tre, quattro, dieci. E io cammino all’indietro, sottomesso ad una forza più grande di me, con le parole incatenate alla lingua, la bocca secca, la saliva che mi incolla i pensieri. Non parlo. Non sento. Non provo. Un automa. Un essere steso a terra, un verme strisciante, senza ossa che sorreggano l’anima. Questo sono io.
Chiudo gli occhi. Lucia è lì. In piedi. La sento. Io a terra, esanime. Lei sembra la donna più decisa del mondo, la più forte, la più sicura. Apro le palpebre e la vedo, in prospettiva. Le sue gambe nere di sole. Le scarpe polverose. Il verde delle foglie, le viti, le vespe che girano nervose a cercare dolci succhi. Io, invece non cerco niente. Mangio polvere. Strizzo gli occhi. Non piango.
Rimango a braccia aperte, distese nella terra. Ci gioco come fosse sabbia. Respiro l’odore di quella campagna a ridosso del mare. Riesco a sentire il salmastro, il profumo del vino pestato nei tini, le voci di chi non c’è più. Sento anche te, che mi carezzi il volto con la gonna e mi solletichi la pelle. Sento le tue mani che mi scorrono addosso, le braccia che mi stringono, la bocca calda di agosto, il mare dove tuffarsi e poi ridere. Sento scendere la notte, tra me e te e questa terra che diventa sabbia. E questo cielo azzurro che si fa notte. E stelle. E ci troviamo in un campo dove le lucciole non sembrano mai troppe. Ti illuminano il volto ancora bello. Tu le indichi e avvicini i palmi delle mani, per catturarle, tenerle con te come portafortuna.
Apro gli occhi. Ho paura. Paura di quei profumi che ti portano indietro nel tempo. La memoria non si cancella.
Me l’avevi scritto, qualche mese fa, che gli odori sono la vera ancora dei ricordi, ci si aggrappa la mente e tutto ti torna davanti.
Me l’avevi scritto, qualche mese fa, che gli odori sono la vera àncora dei ricordi, ci si aggrappa la mente e tutto ti torna davanti. Me l’avevi chiesto di chiudere gli occhi e di respirare tutta l’aria del mondo, incamerare un momento, portarlo con me nelle strade di questa vita. Ti sento di nuovo addosso e non ti vorrei. Ho voglia di acqua sulla pelle, per buttarti via.
Guardo Lucia. E’ ancora in piedi davanti a me. Mi fissa, severa.
Io tiro su la schiena, mi sorreggo con le mani. Ti penso. Penso proprio a te. Quella per cui ho perso sonno e memoria. Quella per cui sono partito, quella che mi ha deluso, disatteso, tradito, dalla quale una mattina sono scappato. Eppure sono qua tra filari di uva che vuole essere colta, con te che non ci sei ma sei qui.
Lucia mi porge la mano. La prendo, l’afferro. Lascio che mi aiuti a rialzarmi. Camminiamo insieme. L’aria porta ricordi. E il mare, il mare là davanti sbatte contro la scogliera. Incazzato. Ma vivo. Lui come me. Io come lui. Respiro. I polmoni si gonfiano. Si dovranno ricordare di questo momento. E dovranno ricordarsi di te per sapere bene, in futuro, da cosa e da chi stare lontani. Lo dovranno capire dall’odore. E scappare. A gambe levate.