Talking about a Revolution
Il Cairo l’ho lasciata una mattina di Dicembre, con il taxi carico di valigie e la strada per l’aeroporto stranamente quasi deserta. Un tassista copto al volante che scuotendo la testa si chiede dove andremo a finire ed il sole giallo a far capolino in un cielo bianco e piatto.
L’ho ritrovata nell’incertezza, ora la lascio nel caos.
25 gennaio
Piazza Tahrir freme illuminata dai raggi del mattino di questo primo anniversario della rivoluzione. Di governo non ce n’è e dagli eventi dell’anno prima ci si deve ancora totalmente riprendere: le aiuole sono ancora mezze distrutte, al centro resistono le tende dei sostenitori della rivoluzione permanente.
Ma noi camminiamo tra la folla, che conta esponenti politici e religiosi come anche gente normale e famiglie. Gli accessi alla piazza sono controllati da gruppi di volontari che chiedono i documenti e fanno le perquisizioni. Niente polizia, questa giornata è del popolo perché la rivoluzione – si pensa – è del popolo. E a tratti sembra infatti di essere in una grande fiera: gruppi di ragazze urlano gli slogan di quel glorioso venticinque gennaio, i venditori di cibo ambulante fanno affari sui marciapiedi. Un salafita si avvicina a Marco e gli sussurra all’orecchio di non lasciarmi sola. Sorridiamo entrambi, eppure quelle parole non vanno sottovalutate.
E’ capitato a Natasha Smith. Certo è bionda, inglese e giornalista. Probabilmente ingenua, perché non ha considerato che di sera la brava gente torna a casa e a rimanere in piazza sono i più agguerriti – e la baltagheya, ossia la criminalità dei bassifondi. Non sarà la prima a subire una violenza di gruppo, una delle prime però a riportarlo dopo la rivoluzione. Riuscirà a salvarsi perché qualcuno, nella confusione generale, la aiuta a nascondersi in una tenda e a fuggire coperta da un nikab affinché i suoi aggressori non la riconoscano.
Leggo di lei settimane dopo, incredula perché quel giorno in piazza c’ero anch’io. E ripenso a quanta sicurezza offriva questa città solo un paio di anni prima, quando di notte le donne uscivano a fare la spesa e i bimbi giocavano nelle strade fin quasi all’alba. “E’ una fase di assestamento” penso senza troppa convinzione “di certo verranno tempi migliori”.
24 giugno
La fila al supermercato è lunga, la gente fa scorta di acqua e generi di prima necessità perché di lì a un paio di ore è possibile non si riesca più a uscire di casa. Le strade sono più trafficate che mai, gli uffici chiudono in anticipo e i garzoni abbassano le saracinesche dei negozi. Oggi l’Egitto saprà il nome del suo primo presidente eletto in modo democratico.
Siedo sul tappeto steso al centro del salotto, gli occhi incollati allo schermo del piccolo televisore a colori. Per strada ora tutto tace e l’unico rumore percepibile è il ronzio del condizionatore che non riesce a mitigare il caldo che dal terrazzo rimbalza in casa trasformandola in una fornace.
Nel nome di Dio clemente e misericordioso inizia l’annuncio dei risultati città per città, governatorato per governatorato: dà sempre una certa emozione sapere che davanti ai nostri occhi si sta svolgendo la Storia.
Quindi il verdetto finale: 51% a Mohammad Morsi, 49% ad Ahmad Shafiq, ex primo ministro del governo Mubarak. La vittoria è dei Fratelli Musulmani e le piazze – almeno per metà – irrompono in grida di gioia. Niente male per un partito ritenuto illegale fino all’altro ieri e per un uomo che sotto la dittatura ha addirittura provato le carceri. Non sorridono i cristiani, non sorridono i giovani progressisti che hanno dato il via ad una rivoluzione utilizzando abilmente una delle armi più potenti dei nostri tempi: i social network. Ma d’altronde, come alcuni ammetteranno più tardi, è meglio così: se avesse vinto Shafiq la festa si sarebbe trasformata in un bagno di sangue.
“Diamo tempo al tempo” penso mentre giro il pomello del rubinetto per far uscire l’acqua. Ma non esce niente, come spesso accade in questi giorni.
5 dicembre
Di questi tempi si cerca di non pensare al pasticcio in cui l’Egitto sembra essersi ficcato. I fiori della primavera araba sono appassiti e l’autunno arriva senza che si siano potuti cogliere i frutti di tanto sacrificio.
Si cerca in tutti i modi di vivere una vita normale, nonostante le proteste continue, l’islamizzazione in corso nella società e l’ampliamento dei poteri giudiziari che Morsi si è da poco attribuito di sua spontanea volontà.
La magistratura si infuria e così il popolo (che sembra attendere la scusa buona per tornare in strada a rivendicare la sovranità guadagnata a caro prezzo). Ed eccoci punto a capo, con i carri armati di nuovo in circolazione, i fili spinati ovunque ed il venerdì che diventa il giorno preferito per protestare. Questa volta però davanti al palazzo dell’Ittihadeya, ossia la residenza di Morsi, che sorge nel quartiere benestante di Heliopolis. Giusto dietro casa mia.
Apprendiamo delle proteste dai maxi schermi posti all’entrata dei caffé di una delle strade del centro. Per un attimo non si ode più il gorgoglio delle pipe ad acqua e nemmeno il rimbalzare dei dadi sulla tavola del backgamon.
Il tassista alza il volume della radio e tra i rumori delle marmitte vecchie e il suono stridulo dei clacson volano parole come “scontri”, “sassi e bastoni”, “fratelli musulmani”. Tornare a casa è un problema, perché tornare a casa significa entrare quasi nel cuore della manifestazione. Ma ci riusciamo prendendo una scorciatoia che passa per la Città dei Morti, il cimitero.
Omneya mi chiama eccitata, invitandomi ad andare a vedere con lei cosa succede. El Sha’b yurid isqat el nizam! Il popolo vuole il crollo del sistema! I cori salgono verso un cielo bistro senza stelle, intorno a me ci sono mamme e bimbi, giovani, anziani, padri di famiglia. L’Egitto che si è mobilitato è quello buono, è quello che rivendica il diritto di decidere per la propria sorte. L’Egitto che ad ogni caduta ha il coraggio di rialzarsi e continuare a lottare.
La strada di accesso al palazzo è cordonata da militari in tenuta anti sommossa. Ma il popolo non li teme, perchè el Sha’b wal Geish yed wahda, il popolo e l’esercito sono una mano sola. Siamo di fronte a loro, posso vedere i volti di questi giovani, bei ragazzi che sono parte di un gioco spesso più grande di loro. I leader della manifestazione esortano a non spingere, a continuare a manifestare in modo pacifico. Ed infatti l’esercito si fa da parte e lascia che i manifestanti avanzino fino alle porte delle mura che cingono il palazzo.
Nel frattempo su Twitter i Fratelli Musulmani accusano i manifestanti di aver irrotto all’Ittihadeya con la violenza. Subito il mio twit a smentire. Siamo noi a fare la storia, siamo noi a dare l’informazione.
Questa notte verrà ricordata con il nome di Marcia del Milione. Sulla strada invasa da fiumi di persone brilleranno le luci dei fuochi d’artificio.
Ma come fu già in passato, anche in questa occasione, una volta ritiratesi le famiglie, scoppia la guerriglia. A combattere restano i ragazzi più giovani, a volte con le sole pietre, contro le milizie dei fratelli musulmani, sotto gli occhi dei poliziotti che si fumano la sigaretta a ridosso delle pareti dei palazzi.
Mohammad è poco più che ventenne, egiziano, musulmano e artista. La sua colpa è quella di avere una mentalità liberale e di essere rimasto a protestare contro chi sapeva il fatto suo. L’hanno raggiunto, l’hanno picchiato, l’hanno fatto sparire per un paio di giorni per poi lasciarlo andare una mattina con il viso gonfio dalle botte e senza i denti davanti. Quelli che l’hanno conciato così erano musulmani come lui, ma molto meno di lui.
Ed è in situazioni come queste che ti rendi conto che l’ingenuità fa il gioco dei furbi e che battersi per degli ideali senza una comprensione oggettiva della realtà può sortire il contrario dell’effetto voluto. Ma non è ancora detta l’ultima parola: l’Egitto sta ancora combattendo la sua battaglia.