La Scrittura Come Non Esperienza
L’Italia è un paese di scrittori e non di lettori. Da Dacia Maraini a Claudio Magris diversi intellettuali italiani si lamentano di questo. Siamo un popolo di gente che vuole scrivere, raccontare le proprie storie, la propria esperienza, ma che non è disposto a impiegare minuti preziosi a leggere quelle degli altri e questo, come è intuibile, ha portato ad una drammatica auto-referenzialità degli autori e ad una dilagante mancanza di originalità.
Ma come è possibile che siano tutti scrittori e nessuno lettore? Perché sembra che abbiano tutti la bocca piena di cose da dire e le orecchie così vuote di voglia di ascoltare? La risposta a mio parere è da ricercarsi in una radice in primo luogo sociale, ma in realtà anche culturale. La società globalizzata, quella delle immagini strobiche che ci passano davanti a velocità insostenibile, la stessa del sovraccarico di modelli accattivanti come i 15 minuti di celebrità garantiti per tutti teorizzato da Andy Warhol, hanno avuto effetti incisivi sulla popolazione e soprattutto sul suo immaginario collettivo di sogni, aspirazioni e desideri.
L’esperienza umana nel mondo e il suo modo di percepire e trasmettere realtà, è strettamente legata agli input che si ricevono dalla società esterna, all’educazione che si ha avuto, all’humus culturale nel quale si cresce. Se questi input agiscono sull’esperienza, arrivando a modificarne i contorni e i cardini stessi, la popolazione e il grado culturale umano si adatteranno di conseguenza alla nuova situazione.
Nel mondo occidentale, e in Italia, dove la televisione commerciale, le iconografie di lustrini e marionette da spettacolo, la digitalizzazione e dittatura imperante del web e delle sue reti sociali alternative, hanno agito da input e da stimolo sull’esperienza umana, emotiva, e sociale delle persone, si avrà chiaramente un certo tipo di cultura dominante veicolato da un modello precostituito.
Internet e la mediatizzazione della vita culturale e sociale hanno educato le persone a fare un’esperienza della vita assai diversa rispetto a quella che si faceva fino a qualche anno fa. Se prima le persone si incontravano nei locali e nei parchi, discorrevano faccia a faccia per poi magari innamorarsi, oggi, per molte persone, questi passaggi cruciali avvengono su Internet, dove i social network danno la possibilità a persone distanti tra loro nello spazio di dialogare, intessere relazioni, innamorarsi, fare amicizia, mettersi d’accordo su nuove iniziative. In poche parole vivere esperienze legate alla vita vera per mezzo di un dispositivo digitale. Queste nuove piattaforme permettono a sempre più persone di gestire il proprio lavoro, impegni, vita sociale, informazione, consumo di prodotti culturali quali libri o film non nell’universo del mondo fisico, ma nell’ecumene informatico che lo sta progressivamente sostituendo o, se non altro, che gli si costruisce a fianco, come una specie di dimensione parallela virtualmente costituita.
Ovviamente, se esperienze che dovrebbero essere fatte nella vita vera, toccabile sia fisicamente che emozionalmente, vengono relegate ad un mondo fittizio e quasi non regolamentato, il grado d’intensità delle suddette si atrofizzerà fino a quasi sparire del tutto. In un certo senso il filosofo Walter Benjamin aveva ragione: si sta arrivando ad una totale perdita dell’esperienza, ad un diniego di essa a favore della facilità dei mezzi moderni, più immediati ma meno in grado di rendere giustizia alla complessità e stratificazione dell’esperienza e delle relazioni. Le persone si sono innamorate di questo nuovo schema a fruizione facile e rapida, si sono invaghite della vita fatta di esperienza apparente in non luoghi strutturali quali il web o la televisione.
In questi “non luoghi” sembra che quello che conta veramente non è sentire, pensare, soffrire o amare, ma solo apparire. Ad occhi esterni quello che la gente dà prova di desiderare non è il significato, la profondità, il contenuto, ma solo il suo involucro, la confezione con tanto di fiocchetto rosso e brillantini colorati per essere più appetibile.
Questo lento morire dell’esperienza umana ha un effetto anche sulla cultura letteraria e, tornando al discorso “scrittori in erba”, penso che la gente abbia oggigiorno tutta questa voglia di scrivere e non di leggere semplicemente perché nessuno di loro è veramente innamorato della letteratura, né di quella che scrive, né soprattutto di quella che dovrebbe leggere qualora desiderasse migliorarsi come autore. Quello che agli italiani aspiranti scrittori di oggi pare interessare non è la scrittura in sé, ma l’aura magica e prestigiosa che circonda il mito dello scrittore. Questa gente sembra essere più innamorata del sapersi scrittore, convinta che questo porti fama, celebrità, rispetto e affermazione, più che dell’atto stesso di scrivere.
penso che la gente abbia oggigiorno tutta questa voglia di scrivere e non di leggere semplicemente perché nessuno di loro è veramente innamorato della letteratura
Chi ama veramente scrivere sa perfettamente che è un lavoro duro e difficile, dove la pazienza, la tenacia, il saper stringere i denti e l’istinto della lotta per la sopravvivenza giocano un ruolo fondamentale. Il vero scrittore non si interessa principalmente di quante copie ha venduto (benché venderne tante faccia piacere a chiunque), né di essere chiamato in tutte le reti televisive o apparire su tutti i giornali. Il vero scrittore raggiunge il massimo della gioia quando sente quella sensazione inconfondibile e simile all’orgasmo, tipica di quando si è finito di scrivere un periodo che soddisfa veramente e per il quale si sono spese magari dieci ore con il risultato finale di avere solo dieci righe mozzafiato. Non credo che molti degli aspiranti scrittori siano innamorati del sangue e delle lacrime che ogni artigiano della parola deve essere disposto a versare con l’obiettivo di generare anche solo una virgola dirompente, una frase evocativamente unica.
Non penso che qualcuno di loro conosca la frustrazione e l’ossessione compulsiva tendente alla tristezza che si prova quando ci si accorge che, malgrado tutti i tentativi, non si riesce mai a ottenere un adattamento perfetto tra il flusso emotivo che circola nella testa e nell’anima e il suo risultato scandito dal ritmo delle parole sulla carta bianca. Forse per molti degli aspiranti scrittori di oggi queste sono sensazioni prive di senso, cliché anacronistici che, in un mondo che vuole apparire e divorare senza riflettere o pensare, non trovano spazio.
La maggior parte dei nuovi presunti talenti non ama le parole e le narrazioni in quanto tali, ma se ne invaghisce solo per il fatto che queste siano presentate dalla società come facili mezzi per fama e successo. Perché lo spettacolo, la televisione, il web hanno insegnato loro che essere scrittori, cantanti, sportivi o celebrità è meglio che essere persone normali che fanno il proprio lavoro al meglio.
In un clima del genere non credo sia molto difficile capire perché la gente vuole scrivere senza però leggere, studiare, prepararsi e lavorare su se stessa per farlo. Quando anche la scrittura diventa una “non esperienza” i suoi nuovi adepti si vedono eccome: uomini e donne così pieni di artifici da scrivere, ma così svuotati di vita da non riuscire a reggere il confronto serio e doveroso che le parole scritte, e anche quelle lette, pretendono giustamente da loro.