Le notti magiche del bambino che scoprì se stesso
Quando ero un bambino sognavo di diventare un calciatore. Che fantasia, direte voi. E magari, aggiungerete, avresti voluto giocare nel Real Madrid e vincere il pallone d’oro, vero? No, niente di tutto ciò. Le merengues mi sono sempre state sulle cosiddette e ai galacticos avrei preferito una carriera a vita nella squadra della mia città. Della notorietà planetaria, poi, non avrei saputo che fare, tanto più che i bagni di folla mi mettono un po’ di ansia. Per quanto riguarda i trofei, beh, ad un pallone d’oro avrei preferito uno di quei video che davano su trasmissioni come Dribbling. Ecco, questo avrei voluto: giunto sulla trentina, un videoclip alle due del pomeriggio che con un sottofondo musicale come “I want you” di Bob Dylan o “The boy with the thorn in his side” degli Smiths (troppa grazia) avrebbe narrato le gesta dell’ultima bandiera del calcio, colui che ha rifiutato milioni e Coppe campioni per rimanere fedele alla sua squadra. Ed ora che capite perché la mia carriera calcistica è durata un paio di anni e niente più, vi porto alle origini di tutto ciò.
Il primo evento della mia vita che ricordo con nitidezza è il mondiale di Italia ’90. Avevo sette anni ed ero in vacanza a Pietra Ligure con i miei genitori. Di pomeriggio un temporale veniva sempre a farci visita e ci costringeva a tornare in stanza anzitempo. Per fortuna c’era la televisione. Penso di avere guardato tutte le partite, ricordo incontri di nazionali che presto avvenimenti geopolitici avrebbero consegnato al passato, cose del tipo Jugoslavia-Colombia, Romania-Urss e Cecoslovacchia-Stati Uniti. La mia voracità verso quel mondo di bandierine colorate, nomi ostrogoti e inni nazionali era pari alla pazienza di mio padre, dal quale pretendevo risposte a domande da lui stesso nemmeno immaginabili. Eppure per me era importante sapere come si era comportata in passato la Svezia o perché gli Stati Uniti, i migliori in tutto, a calcio facessero pietà.
ricordo incontri di nazionali che presto avvenimenti geopolitici avrebbero consegnato al passato, cose del tipo Jugoslavia-Colombia, Romania-Urss e Cecoslovacchia-Stati Uniti
Un’estate, un’avventura in più, cantarono la Nannini e Bennato a San Siro il giorno dell’inaugurazione, prima di Argentina-Camerun. Per me quell’avventura fu la prima. Non si può sognare di giocare nel Real Madrid quando la prima partita di cui hai un ricordo nitido vede i campioni in carica, la squadra di Maradona, affossata da un colpo di testa di uno sconosciuto africano di nome Francois Omam-Biyik. E che dire degli azzurri? Squadra giovane e arrembante che non si fece mancare la favola all’italiana: il figlio della Palermo povera, Totò Schillaci, assurto a eroe nazionale. Breve ed effimera apoteosi in una carriera non all’altezza delle notti mondiali.
E dopo aver definito la mia sfera di interessi e coltivato per la prima volta il sogno, ecco la delusione, i rigori parati dall’oscuro Goigoechea (si scriverà poi così?) e il sogno azzurro spezzato in semifinale. Il cerchio sembrava chiudersi così. Rimaneva una finale tra quei tedeschi dalle pettinature indegne e l’Argentina ormai considerata nemica. L’ultimo ricordo è il tabellone luminoso dello stadio Olimpico che, a festa tedesca in corso, ricorda a tutti che lo spettacolo è finito, certo, ma deve anche continuare e quindi lampeggia un “Hello USA ’94“.
E solo allora il cerchio si chiuse realmente, perché se è vero che in quel mese italiano avevo avuto un assaggio di tutti i gusti, dal dolce al salato, che la vita può offrire, quel tabellone luminoso mi insegnava che la vita non è una storia, ma un insieme di storie, a volte intrecciate, altre sovrapposte, talvolta slegate, ma in ogni caso unite da un filo conduttore che sono le nostre coscienze, il sostrato formato dalle esperienze e dalle scelte che abbiamo fatto e ci portiamo appresso per gli anni a venire.
Mi capita spesso di riascoltare la canzone del mondiale italiano, “Notti magiche“. L’ho fatto anche recentemente e tutt’ora mi commuovo ripensando alle mie notti magiche. Ed ora che i trent’anni li ho raggiunti e non sono diventato la bandiera di nessuna squadra e nessuno ha girato un videoclip sulle mie gesta con sottofondo di David Bowie o The Who (chi avevo detto prima?), ho pur sempre il ricordo di quell’estate, la “prima” della mia vita. Se poi chiudo gli occhi posso immaginarmi in maglia azzurra. Eccomi ricevere il pallone da Baggio, puntare l’uomo, dribblarlo, spostarmi sulla destra, calciare rasoterra e infilare il portiere avversario. Immagini in dissolvenza, montaggio che alterna la mia esultanza con il pubblico in delirio, la voce di Pizzul che scema e lascia il campo a “Perfect day” di Lou Reed.