Le donne di Mokattam
C‘era una volta una gazzella
che si fermò a bere dell’acqua
aveva gli occhi dolci
e un bel manto, color del miele…
E’ un pomeriggio di inizio ottobre ed il caldo torrido dell’estate egiziana sembra ancora non volerci dar tregua. Noi stiamo al fresco, sedute su un divano con le volute dorate, in una stanza dalle pareti rosa con le tende a fiori appese alle finestre e i centrini ricamati stesi sul tavolo.
Neglaà mi parla della sua casa, della sua vita, e a me vengono in mente i versi di una vecchia canzone d’amore araba che racconta di una gazzella dagli occhi dolci e dal manto color miele.
Ha vent’anni, un figlio in braccio e uno in grembo. La sciarpa rossa che le cinge i capelli dà ancor più luce ad un viso che non ha niente da invidiare a quello delle star del cinema. Glielo dico e lei ride, in fondo è poco più che una ragazzina.
“Amo la mia casa. L’ho voluta io così: bella e pulita”. Si guarda intorno con aria fiera e aggiunge: “io voglio che i miei figli crescano in un ambiente sano”. Si tocca la pancia e le chiedo se è maschio o femmina. “E’ una femmina, ma non so ancora come chiamarla. Mio figlio si chiama Cyrillus, vorrei un nome con la C”. “Beh, potresti chiamarla Chiara” dico io “in italiano vuol dire luminosa”. Ci pensa un attimo e poi annuisce. “Chiara mi piace proprio”.
Scendiamo le scale e a mano a mano che ci avviciniamo al piano terra la puzza diventa insopportabile. Scavalco i cumuli di immondizia facendo finta che non ci sia niente di più naturale, stando attenta a non scivolare sui residui viscidi di cibo. Trattengo il fiato fino a che non usciamo in strada, dove saluto Neglaà e mi incammino verso la rampa che porta alla via principale. Tra i bimbi che giocano e i grandi che lavorano passano strombazzando motorini, carretti e furgoni carichi di immondizia. Mi sforzo di rimanere impassibile, quantomeno per rispetto a chi lì ci vive. Ma non ci riesco, credo me lo si legga in faccia.
Un tassista due ore prima si è rifiutato di portarmici. “Ti lascio davanti alla Cittadella, a Mokattam sali da sola”. “Si chiama Menshiyat Nasr” gli avevo risposto io, ed ero scesa dal taxi sbattendo la portiera. A destinazione ci sono arrivata a piedi, rimproverandomi di esser stata così aggressiva col tassista, che a dire il vero le sue ragioni ce le aveva. Eppure, dico io, tutta Cairo dovrebbe dire grazie a questa gente.
Li chiamano Zabaleen, che in arabo vuol dire “raccoglitori d’immondizia”. Vivono ai margini della città, su un’altura conosciuta col nome di Mokattam, anche se la maggioranza di loro è emigrata dal medio Egitto e l’accento saidi ancora lo porta dietro. Sono cristiani copti e da generazioni si tramandano uno dei mestieri più ingrati al mondo.
La loro giornata inizia alle tre di notte: uomini e ragazzi scendono con i camioncini vuoti in città per andare a raccogliere la spazzatura lasciata un po’ ovunque nelle strade. Ognuno ha la sua zona ed il suo tipo di rifiuti. Quando tornano a casa, a metà mattina, le mogli hanno già preparato il pranzo e stanno aspettando al pian terreno i sacchetti di immondizia da aprire e differenziare. C’è chi tratta la carta, chi la plastica, chi i tessuti o le lattine. Le più sfortunate hanno a che fare con il vetro, i rifiuti organici o quelli speciali, degli ospedali. Neglaà differenzia il cibo.
Camminando per le vie del centro scorgo dai portoni delle case tenuti spalancati decine di donne chine sulla spazzatura, ignare del caldo, delle mosche e della puzza, a trasformare col loro sudore gli avanzi in pane. Il sistema di raccolta e differenziazione messo in atto dagli Zabaleen, pur avvalendosi di risorse modeste, è l’unico che ancora riesca a far fronte all’emergenza rifiuti che da decenni attanaglia il Cairo, alla quale né i vari governi né la ditta spagnola a cui era stata data in subappalto la gestione dello smaltimento dei rifiuti sono riusciti a dare una risposta effettiva. I cittadini di Mokattam ci riescono, e vengono ripagati con l’emarginazione sociale.
Quando arrivo all’Associazione è quasi l’una. Tiro il fiato e riprendo a respirare. L’hanno chiamata Associazione per la Tutela Ambientale, ma basta dire “l’Associazione” e tutti capiscono di cosa si parla. E’ stata istituita dagli abitanti, nel cuore di Mokattam, “perché -mi dicono- per cambiare le cose bisogna partire da qui”. E sembra un paradosso camminare nell’immondizia per arrivare in quest’oasi verde dove con la carta riciclata si fanno i biglietti di natale, con gli stracci si creano dei tappeti colorati e con i fondi delle lattine si realizzano lampade a basso consumo energetico.
Teresa mi viene incontro sorridente, mostrandomi i risultati del lavoro del mattino. “Sabato abbiamo l’inaugurazione: appendiamo le lampade giù al mercato e poi le accendiamo. Vedrai che spettacolo!”. Non diresti che ha ventott’anni. E che è vedova. Teresa è un’altra donna eccezionale. Non solo perché coi suoi due lavori mantiene la famiglia ed ha anche tempo di fare volontariato e di studiare inglese, ma perché si sforza di andare col pensiero più lontano.
“Voglio fare una bomba ad acqua, mi devi aiutare”.
La guardo spiazzata, così mi spiega che due giorni prima c’è stato un brutto incendio. I cavi dell’elettricità penzolano ovunque, le bombole del gas a volte stanno al sole per ore e basta un attimo perché il fuoco divampi estendendosi al vicinato, tra l’immondizia e tutto il resto. “Abbiamo chiamato i pompieri -dice con gli occhi lucidi- ma si sono rifiutati di venire fin qua”. Allora lei pensa a come risolvere questo problema, a come impedire che il fuoco distrugga case, bruci persone. Vuole fare una bomba ad acqua.
La casa di Tesera sorge giusto vicino al Monastero, il Deir, come lo chiamano qui. Anche questa è un’oasi di pace. La gente ci viene per respirare, per incontrarsi. Al giovedì nella chiesa incavata nella roccia fanno gli esorcismi.
Incontro Mayada davanti all’ingresso della cripta, sta seduta tra le aiuole di fiori. Gli occhioni neri con le ciglia lunghe le si illuminano in un sorriso. Con Mayada si fanno discorsi più grandi dei suoi sedici anni. Già da parecchio tempo lavora in un salone di bellezza, sa disegnare la pelle con l’henné e fare la messa in piega. Mi racconta della sua gente, di come le donne si accollino le responsabilità maggiori, i pesi più grandi. Sa che nella sua comunità ci si suda il pane, ci si ammala per la mancanza di medicine e la scarsa igiene. Sa che forse le capiterà la stessa sorte, anche se lei no – dice “io se mi sposo sarà per amore, io un giorno tornerò a studiare”. Si perde un attimo nei suoi pensieri ma poi torna a terra. “Sai che ti dico? E’ meglio cantare”.
C’era una volta una gazzella…