“Animali annoiati”: Wallace all’Orologio
ROMA – “Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso”, di D.F.Wallace, è in scena fino al 21 dicembre al Teatro dell’Orologio. Lasciate che vi racconti qualcosa dello spettacolo. Non tanto la trama, quanto alcuni punti principali: di come non è schizofrenia accostare elementi apparentemente discordanti, di come sia particolare l’autonarrazione dei personaggi portati in scena, di quale sia il nesso fra questi personaggi impauriti e la loro spasmodica ricerca di qualcosa di estremamente pop come sono i fast-food, di come in tutto ciò prenda il suo posto silenziosamente la Noia, unica in grado di defenestrare la Paura. In ultimo, una postilla sul product placement a teatro e una sul Wallace’s effect su una lettrice infedele come la sottoscritta.
Vedere Wallace a teatro è anzitutto rivivere sul palco la paradossale coesistenza di eloquenza volta a esprimere l’enorme carico interiore e di vuoti silenziosi di postmoderna apatia. Lo stesso bizzarro connubio che intuisco anche quando lo leggo su carta, D.F.Wallace. La sensazione di camminare in bilico “fra input troppo banali da elaborare e input troppo intensi da sopportare”, di scoprire piano piano la disperazione che si cela sotto la spettacolarizzazione di un mondo a stelle e strisce fatto di cartapesta e popolato da clown disoccupati. E se in questo mondo si organizza la più grande riunione delle comparse degli spot di MacDonald’s – 44.000 persone –, e se questa riunione si fa a sua volta spot ed evento promozionale, “irruzione di consumo puro”, “vita e morte della pubblicità”, se questo assembramento colossale diventa il più grande caso pubblicitario di sempre, nulla basta a camuffare quegli sprazzi di straziante contemporaneità che emergono tanto negli scritti di Wallace quanto nella messinscena al Teatro dell’Orologio, opera di BluTeatro. Musica commerciale, lounge, rock melodico, club music, voci penetranti e sorrisi smaglianti che evocano lustro e potere, stacchetti di facile memorizzazione, spot, filastrocche, rime, assonanze, risate col mento all’insù – segno brama di potere, motivetti ripetuti e frammisti a motti in inglese e inserzioni pubblicitarie e qualsiasi tipo di advertisement. È l’eco dei programmi televisivi ma, in fondo, non è che la loro satira: presentatori sono tutti i personaggi in scena, quando parlano di sé in terza persona, alternando azione ed autonarrazione. Non metafore di qualcosa ma emblema nudo e crudo dell’America degli ultimi anni: la ragazza con la faccia arancione, il clown disoccupato, la hostess con i capelli a incudine, il giovane che vive costantemente l’imbarazzo nei confronti della sua fisicità nell’espletare le proprie funzioni fisiche. Personaggi troppo “preoccupati a capire come sopravvivere al presente” per potersi rivolgere a qualsiasi altro tempo e a qualsiasi altro posto: i fast-food diventano quindi luogo di culto, fabbrica in cui si forgiano bisogni ed ospedale in cui si somministrano antidoti contro ogni paura calcolata a tavolino – in primis quella della morte, che tutti accomuna. Ecco allora i burger gratis come cura a ogni incubo, ecco gli stazionamenti in non-luoghi surreali e contemporanei -aeroporti, aerei, fast-food – : rifugi uguali in ogni angolo del mondo. Non più mero elemento di sfondo, la cultura pop si fa divinità a cui prostrarsi e da citare quanto più possibile, rassicurante preghiera: rappresenta infatti “ciò a cui la gente già crede”. Che poi la sottoscritta abbia particolarmente a cuore quest’idea secondo cui oggi dai fast-food possono emergere sorprendenti prodotti artistici che riflettano a pieno titolo la contemporaneità e che la stessa stia portando avanti un progetto in questa direzione, è un altro conto.
“Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso” è, come tanti lavori di Wallace, ricerca attorno alla noia. Si parte dalle paure: paure schiaccianti, irrazionali, più o meno fondate, più o meno probabili, più o meno patetiche e rappresentative di quello che è “il secolo più impacciato”. Pagliacci impauriti, i personaggi cercano il loro focolare domestico in materni, tiepidi hamburgers. Di fronte alla paura, unica in grado di controbilanciarla, sta la noia. “Siamo animali annoiati”: è la verità rivelata sul finire del dramma.
Per parafrasare Schopenhauer: con la noia da una parte e la paura dall’altra, trascorre la vita. In qualche angolo seminascosto, invisibile ai più, sta un respiro vitale. Forse. Per il resto, nel mondo di Wallace i personaggi si barcamenano fra epifanie rivelatrici e schiaccianti e cuori che non provano più assolutamente niente.
Fra le note a margine, è da notare la tecnica del product placement teatrale: mi ero sempre interrogata sulla sua fattibilità, ma Minimum Fax, che pubblica alcuni titoli di Wallace, mi ha preceduto piazzando un volume dell’autore sul palco, in apertura: unico oggetto illuminato ad inizio spettacolo. Bell’idea.
Non a margine, invece, è da sottolineare la fedeltà della compagnia BluTeatro allo spirito di Wallace. Mi spiego: ci sono stati minuti difficili da assimilare, minuti in cui, fosse stato un libro, avrei letto le righe in fretta, come mi capitava di fare con Wallace, da lettrice infedele, minuti che se fosse stato un film lo avrei mandato avanti o avrei sfogliato un giornale. E ci sono stati, poi, istanti in cui sentivo gli organi fermarsi, tanta era la forza di ciò che accadeva sul palco. Lo stesso effetto di quando leggo Wallace, sì.