Personal Branding? Io la chiamavo personalità
È vero che ogni campo ha il suo gergo, un suo certo linguaggio settoriale, ma a me la trasformazione di un imberbe e baldo giovine in un robot che parla il marketingese incute sempre una certa cupa soggezione.
Un tempo si diceva “non fa per te”, ora si dice “non è il tuo target”. La popolarità si misura in page rank e page view, click baiting e brand awareness. Per non parlare delle sigle, fosse mai che si perdesse quel secondo in più per parlare per esteso… Il tempo è denaro! Ed è così che quello che era un cortese invito, seppure eventualmente virtuale, ad agire in una determinata maniera, è divenuto oggi un CTA, “call to action”: scarica ora! Clicca qui! Prenota là! Sì, li uso anche io, questi CTA. Quello che mi impensierisce del marketing è il linguaggio. Il fatto che esso stesso sia comunemente racchiuso nelle consonanti MKTG. Nomi che sembrano sigle di droghe, di medicinali, unioni di stati pronte a far esplodere il pianeta. Un termine che mi suscita una quasi-simpatia è, però “engagement”: sebbene abbia perso la sua pronuncia francese per assumere quell’odioso suono inglese, l’engagement a me continuerà a ricordare Sartre e compagnia bella. L’esempio che ho fatto più volte è poi quello dello storytelling, ambiguo più che mai e che però ancora non mi rassegno a condannare, probabilmente per l’anima narrativa che comunque cela, sotto strati infiniti di secondi fini, quello economico in primis.
Feci un corso di comunicazione sociale, tempo fa, in cui ci veniva impedito di parlare di “target”. Per me non si poneva il problema, perché ero ancora la ragazzotta naif che mi ostino ad essere, ma i miei colleghi erano tutti passati per le maestose vie del MKTG e delle Scienze della Comunicazione. La comunicazione sociale, ci dicevano in questo corso, si indirizza a soggetti singoli, non ad impersonali “target”. Ammirate l’orrenda definizione di “target” che il web mi fornisce : “rappresenta le persone che sono potenzialmente interessate a ciò che la tua azienda vuole offrire e quindi vuoi intercettare. Nessuna strategia di comunicazione che si rispetti prescinde dall’individuazione del target (in genere più di uno), che ti serve a calibrare il tipo di tono, messaggi e offerte proprio in base a età, sesso, bisogni, interessi, capacità economica e altre specifiche proprio per il tipo di persone che vuoi raggiungere e coinvolgere”.
Siamo tutti target. Finirà che quando ci fermerà un galante o una galante per strada e non saremo interessati a causa di un’apparente discordanza in termini di gusti, carattere, classe sociale, declineremo l’invito dicendo “non sono il tuo target”.
Vogliamo parlare del personal branding?
E’ definito come “un percorso per individuare e valorizzare le proprie competenze, capacità e passioni, differenziandosi dai competitor, imparare a comunicarle nel modo migliore per emergere grazie alla propria unicità, utilizzando (anche) gli strumenti del web, in primis i Social Media, e creando una proficua rete di relazioni (network) on e off line.”
Io lo chiamavo espressione di sé, che sa più di spontaneo e genuino, e i competitor li chiamavo “altre persone rispetto a cui mi sento differente”, senza bisogno di insediare il seme della discordia. Quello che mi spaventa di più del MKTG, è la disumanizzazione.
Un professionalissimo corso di formazione regionale sta prendendo a mazzate la parte innocente e bambina della sottoscritta: durante le lezioni del simpatico MKTG, per prima cosa, abbiamo analizzato il caso Berlusconi: come ha raggiunto l’apice del successo nonostante tutte le critiche? Cosa c’è di costante e cosa invece varia a livello di campagna pubblicitaria? I loghi? Le fotografie? Come viene ritratto e proposto al pubblico? Soprattutto: chi era chi è e come si è evoluto il suo… target? Fine della lezione: ecco cosa può fare il marketing. Dopo una lezione del genere, chi ha voglia di tornare in classe l’indomani, avendo capito che il MKTG può significare trasformare lo schifo in qualcosa di appetibile?
Come tutti gli strumenti potenti, il MKTG tenta gli onesti e li chiama allo sfoggio massimo della loro onestà. Il richiamo del giocare sporco, quando il numero di strumenti aumenta, ha qualcosa di diabolico. Saper cosa si deve dire e in che momento preciso va detto per poter ammaliare un potenziale acquirente. Saper rassicurare. Immaginate una relazione d’amore con un esperto di marketing. O con un fund raiser, abituato per vizio professionale a tentar sempre di convincere ipotetici finanziatori. Il perverso marketing che sonda i segreti della psiche e ci gioca come sanno giocarci i maghi, quando fanno le loro magie e sanno che si troveranno di fronte i volti stupefatti dei poveri illusi che non sapranno mai che la carta è nascosta proprio nel bordo ripiegato della manica.
Un’altra zolla di innocenza l’ho persa quando abbiamo fatto, sempre a lezione, un test in cui sarebbe risultato il tipo di acquirenti che siamo. Si trattava di un’indagine di mercato in seguito alla quale avremmo analizzato, per ogni profilo, le maniere per farne un effettivo cliente trattandolo esattamente nella maniera in cui desiderava. Ho fatto il test e ne è emerso che mi piace essere una voce fuori dal coro, che ho spiccate dosi di autonomia e che quando devo fare acquisti non ho bisogno di aiuto perché devo fare di testa mia. Che non sono fidelizzabile: il profilo che forse tutti gli esperti di marketing odiano. Che sono un “profilo A”. Il mio anticonformismo racchiuso in una formula, in qualche riga di definizione. Morta così quella che io, un tempo, chiamavo personalità e che ritenevo esclusivamente mia, di cui ero gelosissima.
Dove ci porterà, questa bestia pericolosa che è il marketing?
Se è vero che ogni lingua nasce e si sviluppa ad immagine dei parlanti che la plasmano, in cosa ci stiamo trasformando noi tutti?