Sos Natale
Sos davvero. Ma non per il Natale. Ho scritto questo racconto esattamente un anno fa. Per un corso di scrittura creativa. Allora non mi sembrava male, infatti avevo mandato giù saliva amara quando la professoressa mi aveva detto che faceva pietà (lei era stata un po’ più cortese). D’altronde si sa, tutti ci crediamo un po’ Manzoni e chi scrive è gelosissimo di ciò che scrive.
L’ho tenuto via. E quando oggi l’ho riaperto mi sono resa conto che la professoressa aveva proprio ragione. Ma, siccome la scrittura è un po’ come il maiale e non si butta via niente, oggi lo riciclo. Ovviamente rattoppato, per quanto possibile.
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Federica ha accettato di coprire il turno del 25 dicembre per lo stesso motivo che l’ha spinta a entrare nella squadra del 118: Matteo, suo amore (platonico) da circa dieci anni. Anche Matteo, infatti, presta servizio quel giorno. Saltare il pranzo in famiglia è per lui il più bel regalo di Natale. Non vedrà i nonni, appena tornati da una crociera a Miami, che sicuramente regaleranno a tutti i nipoti un iPad, un iPhone 6s o qualsiasi altro pensiero che non costi meno di cinquecento euro. E non farà nemmeno la fatica di deglutire le tartine di caviale e l’arrosto in gelatina che sua madre si ostina a ordinare tutti gli anni nel ristorante più caro della città. Perché tre forchette Gambero Rosso sono tre forchette Gambero Rosso.
Alberto: cinquant’anni e una famiglia da mantenere con lo stipendio da insegnante di scuola guida. Ci sarà lui al volante dell’ambulanza, in questo Natale che non passerà con la moglie Anna e il figlio quindicenne, Pietro. Anna ha preparato lo stesso l’arrosto di maiale e la polenta con l’intingolino, ha sistemato un mazzo di fiori finti in mezzo alla tavola e sul frigorifero ammaccato spunta un panettone della Coop. Pietro, dopo il pranzo consumato insieme alla madre e alla nonna, che non riesce nemmeno a masticare decentemente, se la vedrà con una maratona di play-station, rinchiuso nella sua camera da due metri per due.
Infine Antonio, detto Nanni. Ex-infermiere in pensione, vedovo e con i figli all’estero. Trascorre le sue giornate a far visita al reparto di medicina interna in cui ha lavorato per oltre quarant’anni, ma qualche settimana fa la capo-sala, una suoretta dal piglio energico e imperdonabile, gli ha detto la verità: non è il caso che continui a bazzicare per le corsie, lì è solo d’impiccio. Quindi, piuttosto che trascorrere un Natale da solo a bere San Crispino davanti ai programmi televisivi delle reti generaliste, meglio il 118.
Federica passa la giornata contemplando Matteo e ridacchiando per ogni cosa che dice. E’ stanca di vivere in un film che ogni giorno deve fare la fatica di girare nella sua mente. E di cui lei è protagonista ma anche sola spettatrice. Un giorno lascerà tutto e tutti, si trasferirà all’estero e forse potrà togliersi di dosso l’immagine che la gente ha di lei. La ragazza né brutta né bella, né stupida né intelligente, né magra né grassa, né simpatica né antipatica. La ragazza noiosa.
Matteo non potrà mai amare Federica. Non amerà lei e nessun’altra ragazza. Chatta su whatsapp con la persona che vorrebbe presentare ai suoi, con cui avrebbe voluto trascorrere il Natale. Anche in famiglia, ridacchiando delle manie di grandezza della madre. E l’avrebbe fatto, se quella persona si fosse chiamata Stefania e non Stefano.
Alberto, invece, cerca di divertirsi un po’. Se ne esce con battute che purtroppo tanto ridere non fanno. Si sente in colpa per non essere a casa, e non tanto per il fatto di non esserci, quanto per non aver voluto esserci. La noia, quell’appartamento angusto, che gli fa dire non è vero che i soldi non fanno la felicità, le scelte partorite prematuramente e mai digerite: come il matrimonio con Anna, appena finito il liceo, quando i due si erano accorti di averla fatta grossa. Qualche mese dopo, la nascita di Pietro. E ora vorrebbe che le cose fossero andate diversamente, che un fulmine si abbattesse sulla sua vita mediocre e lo costringesse a lasciarla. Ma alla fine va avanti.
Nanni non fa che raccontare del suo passato da infermiere: aneddoti un po’ veri un po’ mitizzati, ma con la sicurezza che in fondo ha avuto la vita che desiderava. E se ora non è più tale, tanto manca poco.
Durante il giorno l’ambulanza va a pescare un po’ di gente: un signore colpito da infarto per eccesso di cibo e alcol, una donna sulla trentina per tentato e mal riuscito suicidio (due boccette di Lexotan forse non erano sufficienti o forse lei non voleva davvero morire), un diabetico che credeva fosse giorno di ferie anche per l’insulina.
E tra qualche ora sarà di nuovo un giorno come tutti gli altri.
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Al di là del limite di battute che avevo per l’esercitazione, c’erano alcune cose raccapriccianti che ho imparato a non fare. Come mettere la morale. Meglio un racconto sospeso che un insegnamento a piè di pagina. Difficile, specialmente per chi come me è stato abituato dalle maestre e poi dalle professoresse di italiano, a scuola, a non avere fretta di finire.
E poi ci sono i personaggi. All’inizio li costruivo troppo perfetti: buonissimi, bellissimi, simpaticissimi. Tipi che, se non li avessi considerati mie proiezioni ideali, non sarei mai riuscita a sopportare. Figuriamoci i lettori. L’ho chiamato errore di identificazione deformata: ti costruisci un eroe o un’eroina che viva le avventure che vorresti e sia come ti piacerebbe essere. Troppo comodo, così. Poi però sono cascata nello sbaglio opposto. Per paura di mitizzare i personaggi, li ho abbruttiti. E non ci sarebbe nulla di male, in realtà. Basta che il lettore riesca a identificarsi in essi. Almeno un po’. Avete presente quando guardi un film e speri in fondo in fondo che il protagonista ladruncolo riesca a compiere il furto? Ecco. Insomma, non risparmiare nulla ai protagonisti, ma non smettere nemmeno di amarli.
E sì, questa è tutta teoria. Poi il racconto in questione almeno ha il pregio di farvi passare l’angoscia se vedete in tv lo spot natalizio della Bauli o dell’Ikea.