Lasciarsi: manuale di (non)sopravvivenza
“Se il caso o il destino lo vorranno ci rincontreremo”. Esisteva modo migliore per salutarsi? Senza melodrammi, senza incomprensioni, senza quelle discussioni in cui ogni cosa detta è legata solamente all’ultima frase ascoltata, quelle discussioni in cui a forza di parlare si arriva a sentire la propria voce rimbombare nella testa e si pensa: “Ma che cosa sto dicendo?”. Lasciarsi così come ci si è presi: con amore, con consapevolezza. E stavolta – ci avrebbe giurato – l’avrebbe lasciata libera, perché l’amava veramente, e perché lui non era più un ragazzino. È anche giusto – si diceva – fino a un certo punto della propria vita, pensare che il proprio amore abbia ragione sui fatti, sulle incompatibilità, su ogni tipo di difficoltà, sulla distanza. Poi però si cresce, e crescendo si capisce che a volte il modo migliore che hai per dimostrare a una persona quanto la ami è semplicemente lasciarla stare, anche quando non sei il solo a non volerlo fare, ma se non si può più camminare insieme la vita in qualche modo dovrà pur ricominciare.
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Si sarà ripetuto queste parole almeno un milione di volte, per essere precisi tutte le volte che la sua mano, in modo quasi indipendente dalla testa, prendeva il telefono e cominciava a scrivere qualcosa. Decine di messaggi finiti nel cimitero delle bozze, tutti diversi l’uno dall’altro. Forse era più difficile di quanto pensasse, forse non era poi così cresciuto come immaginava. Ma almeno, a differenza delle altre volte in cui aveva ceduto circa immediatamente alla tentazione, resisteva. Del resto sarebbe stata questione di tempo, sì, ma quanto tempo? Scrive Leo Ortolani, alla fine di Venerdì 12:”Voi non lo sapete, ma nell’istante in cui venite lasciati nella vostra testa scatta un conto alla rovescia. Che scandisce con precisione anni, mesi, giorni, ore, minuti e secondi che dovrete soffrire per amore, prima di ricominciare a vivere. E la condanna è diversa da persona a persona”.
Già, condanna. Del resto lasciarsi non è un po’ come andare in galera? Sai che per un certo periodo di tempo non sarai più libero. Sì, in un caso ci sono sbarre d’acciaio a limitare la tua libertà mentre nell’altro ci si potrebbe immaginare una cella con la porta aperta, dove però varcarla significherebbe perdere per sempre una parte di sé. Possiamo forse biasimare chi per un po’ rimane a fissare l’uscio e solo a piccoli passi vi si avvicina?
Tutto questo lui lo sapeva, non era più un ragazzino. Ciò nonostante un giorno, in sereno accordo con se stesso, decise di scriverle, interrompendo così l’elegante e formalmente perfetto silenzio che come i pesi di una bilancia li teneva diametralmente separati, eppure in qualche modo ancora, insieme, parte di qualcosa. C’è forse nell’essere umano un innato bisogno di sanguinare, di scontrarsi e di ferirsi, di sfinirsi nella lotta. Di rimanere aggrappati con le unghie ad un’emozione quando il paesaggio intorno si sgretola e precipita. Fino all’ultimo secondo. Fino a che non si cade. Perché alla fine (ed era questa forse l’unica cosa che aveva realmente capito) si cade sempre. Alla fine c’è solo la fine, e la fine non può essere bella, romantica, serena. La fine fa schifo, sa di sangue e piscio, di amaro e lacrime, sa di un incubo dal quale hai paura di non risvegliarti mai. E fa sempre dannatamente male. Per un po’. Tranquilla, solo per un po’.
A un amico e un’amata