La felicità che dorme
I tuoi occhi che mi guardavano nascosti tra le pieghe del cuscino non li dimenticherò mai. Avevano delle piccole rughe ai lati che si accentuavano ancora di più quando ridevi senza freni. Ti buttavi il cuscino sulla faccia quando mi prendevi in giro e battevi i piedi sul letto, con le ginocchia inclinate, mentre te ne stavi beato a pancia in su. Stavamo per ore a guardarci dritti negli occhi, a raccontarci di quando eravamo bambini e non sapevamo dell’esistenza l’uno dell’altra. Noi, separati alla nascita, con qualche rimpianto di troppo in tasca, ci siamo stretti fino a farci mancare il respiro ed era bellissimo così.
Mi hai stretta così anche quel mattino, di domenica. Con quel treno da prendere, mia nonna con i giorni contati e un pianto che mi ha presa all’improvviso. Le tue braccia che mi serravano le lacrime, volevano ricacciarle dentro a forza, sbatterle contro il muro, farle diventare pioggia deliziosa.
Invece – e me ne sono vergognata – erano un tornado che non voleva smettere, un temporale estivo che toglie il sole dal cielo. Mi pioveva dentro e non potevo farci niente. Io, piccola egoista, senza il coraggio di affrontare la realtà. Avrei voluto rimanere tra quelle braccia piuttosto che riprendere quel treno che mi sbatteva in faccia una verità che non ero pronta ad accettare. Mia nonna per me era un essere immortale. Troppa bella e troppo viva per morire. E io ero troppo felice di me, di lui, per pensare che invece avrei dovuto togliermi dalla faccia il sorriso ebete di chi è innamorato e vestirmi di dolore.
Lei mi chiamò, mentre io e Michele giocavamo e mangiavamo pringles. Buttò giù poco dopo. Teneva due telefoni in mano, come sempre. Disse tre, quattro parole, tenendo due conversazioni contemporaneamente. Io non capivo niente di quella telefonata a tre voci.
Più di una volta la richiamai all’ordine. “Nonna, ma parli con me?”.
“No, no, ho Leonardo dall’altra parte. Ti richiamo dopo pallino”, mi disse.
Risi, immaginandola con due cellulari all’orecchio. Poi guardai lui e il mio sorriso si chiuse, serrato di paura. E di dolore. Di speranze finite all’osso. Mi rimase quell’abbraccio che era un attimo di eternità. Non disse niente, Michele. Non fece altro se non stringermi, fino a stritolarmi, fino a sentire male. Mi sentivo al sicuro in quella stretta di felicità. Non avrei voluto andarmene. Il mio mondo era lì. Dentro un abbraccio. Distesi sul letto. Guardare quegli occhi chiusi e leggerci dentro la felicità.
Ripensarci oggi mi dà una strana sensazione. L’amore. La paura. Il dolore. La felicità. Li ho tutti lasciati a quel giorno. Dormono in quell’abbraccio potente ed eterno. E io, vivo, non so bene come né perché, di sentimenti a mezz’asta. Di sensazioni buttate là per caso. Forse le temo, non so.
È domenica, come tanto tempo fa. E fuori c’è il sole.
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Per la foto ringrazio Antonella B. Questo è il suo album di Flickr: clicca qui