Il coraggio di rimanere
Fuori dall’hotel stanno scavando per fare la metropolitana. La prima volta che ho messo piede in questa città avevo paura. Tenevo salda la borsa al braccio, stretta come se fosse un bambino in fasce che temi di far cadere. La prima volta che ho visto questa città c’era il sole. Gettava luce sulle strade sporche, sulle borse false dei magrebini appoggiate sui marciapiedi di Piazza Garibaldi. Le auto correvano impazzite, sfrecciavano a destra, a sinistra, brulicanti come formiche alla ricerca di qualche briciola di pane. Il rumore era onnipresente. Lo è ancora oggi.
In questa città non c’è mai silenzio. Neppure di notte, quando il sole abbassa gli occhi e il buio cala generoso sul golfo, le case si accendono di luci, il vento si alza, dal mare. E tutto, da quel momento, pare sereno. Tutto si fa più calmo. Il sottofondo diventa brusio. Questa città parla. E questo mi piace. Ha sempre qualcosa da dire ed io l’ho scoperto solo perché un giorno un treno mi ha portata qua. Pensavo che questa fosse solo la città degli spari per strada, della malavita, di chi tira avanti rubando il portafogli al primo che passa per strada. Pensavo che fosse la città dell’ignoranza, del degrado. Ci rimugino su mentre mangio un piatto di spaghetti Salpietro da Ettore, un ristoratore di fronte alla stazione. Ci sono ferrovieri, poliziotti, turisti. Qui una margherita costa tre euro. Qui ti cambiano le posate ad ogni portata. Qui ti fanno la ricevuta. Rimango sorpresa.
Salvatore l’ho conosciuto da Ettore. Lui studia l’inglese perché vuole fare la guida turistica. “Il mio sogno è far vedere solo le cose belle della mia città”. Me l’ha detto una sera di aprile a Pozzuoli, sul lungomare.
Lo guardo e penso che abbia coraggio. Poi parto, sfrontata, sincera. Come il mare che se ne frega se ti getta il salmastro addosso senza chiedertelo. “Non è facendo vedere le cose belle che puoi cancellare le brutte, a due passi da questo panorama mozzafiato ci sono montagne di rifiuti”.
Mi risponde sibillino. “Ci sono è vero. Ma c’è anche tanto altro. C’è storia, cultura, arte. Ci sono i miei sogni. Io amo la storia, sai? Noi eravamo un grande popolo. Eravamo la quarta flotta navale mercantile d’Europa sotto il regno dei Borbone. Qui è nato il primo osservatorio vulcanologico al mondo. Qui ci sono le ville che si inerpicano come un presepe sulla collina, di fronte al mare. Qui c’è un mondo che ha voglia di farsi sentire”.
Parla senza fermarsi mentre imbocca la tangenziale. Cammina piano, non supera gli ottanta. “Il mio lavoro lo considero una missione” – mi dice dopo qualche secondo di silenzio, mentre il vino si sedimenta nello stomaco. Gli occhi guardano dritto sulla strada. Si volta un attimo verso di me. Lo ascolto. “Sarei potuto rimanere a Londra, sai. Avrei potuto farlo. E’ una città bellissima. Sono rimasto per ore a guardare il Big Ben, un giorno. Non avevo una lira in tasca ma ero felice. Ero felice con niente”.
“E invece sei tornato qua”.
“Sono tornato perché mi sentivo come uno che scappa. Non sono fatto per arrendermi io”.
Parla maturo dei suoi ventitrè anni che sembrano trenta e più mentre il vento rende puliti i pensieri. Rimaniamo in silenzio a gustarci quell’attimo di speranza. Ci sono momenti nella vita che tutto pare improvvisamente possibile. Sono quegli istanti in cui la bellezza del mondo passa a trovarti e tu sei lì, nel posto giusto al momento giusto.
Vorrei più uomini come lui, con gli occhi chiari che sanno guardare lontano. Con il coraggio di chi lotta per rimanere. L’auto va. Scendiamo verso il centro. Arriviamo a Piazza del Plebiscito, con quel colonnato che pare abbracciarti. Ai Decumani ci fermiamo. Camminiamo. Respiro la storia di questa città, di un’Italia che è viva e che ancora parla, se la sai ascoltare.