Hasta siempre, Comandante!
Il sentiero si snoda tra i monti sotto nuvole gonfie in un cielo topazio. E’ la primavera boliviana e la radio suona il ritmo nostalgico di una cumbia ranchera. José ingrana la prima e si ficca in bocca una manciata di foglie di coca. Con un guizzo degli occhi ci indica il lato opposto della strada, dove sta conficcato un palo e sopra un’insegna. Col pennello bianco ci hanno scritto Ruta del Che. Accostiamo tra i borbottii del motore surriscaldato e diamo inizio al viaggio nel tempo, verso i giorni fatali di un ottobre degli anni Sessanta in cui per tener fede ai suoi ideali Ernesto Guevara moriva. E il suo mito nasceva.
Ci avviamo per la Quebrada del Yuro, la discesa verso il luogo in cui il Che spese i suoi ultimi giorni di guerrigliero nella macchia. Mentre avanzo di sghembo nel suolo in pendenza mi chiedo se anch’egli abbia sentito con la stessa intensità il caldo, la sete, o la terra umida che scivola sotto i piedi. Nel silenzio attraversiamo prati, ci addentriamo nella boscaglia e saltiamo sui sassi di un torrente, l’unico nella valle, il solo approvvigionamento d’acqua per Ernesto e i suoi compagni in quel tratto sperduto della selva boliviana.
Ad attenderci alla radura c’è una stella rossa disegnata su una roccia, un albero e niente altro. Tocco con lo sguardo la cima delle montagne che proteggono l’ultimo rifugio del Che e penso a quanto facilmente il migliore dei nascondigli possa rivelarsi la peggiore delle trappole. Vedo gli uomini di Guevara sorpresi dall’esercito di Felix Rodriguez, tra l’eco degli spari e l’amaro della sconfitta in bocca, mentre il comandante ferito alle gambe esce da dietro la roccia con le mani alte.
Non sparate. Vi servo più da vivo che da morto”
Un pugno di case e una scuola con un’aula sola sono bastate a far passare alla storia il paese de La Higuera. I muri sono pieni di scritte inneggianti alla guerriglia, dalle finestre si affacciano anziani con il cappello a tesa larga che giurano di averlo visto in vita.
“Lo hanno condotto qui un pomeriggio e lo hanno tenuto prigioniero all’interno della scuola. Era alto, con la barba lunga. Aveva una maglia intrisa di sangue, si vedeva che stava patendo”. La nostra testimone ha la pelle raggrinzita dagli anni e una treccia lunga color sale e pepe. “Ma non lo hanno legato, lo rispettavano. Noi invece non sapevamo nemmeno chi fosse” aggiunge “a quegli anni era meglio tacere. Quest’uomo lottava per noi e noi lo ignoravamo”. Sparge delle foto del Che sorridente, del Che morto sulla tovaglia appiccicosa. “Le volete? Sono originali”.
La sedia in cui lo fecero sedere era piccola e bassa per un uomo di quella stazza. Ora sta vuota, a ridosso di una parete della Escuelita, circondata da biglietti scritti in lingue diverse, dediche, disegni e foto. Si racconta che quel giorno fecero a sorte per scegliere chi dovesse sparargli, che il soldato scelto sbagliò il tiro e lo ferì alla gola, che l’ultimo colpo – quello fatale, al cuore – lo sparò Rodriguez stesso. “Avanti, stai solo uccidendo un uomo”. E il 9 ottobre 1967 nacque la leggenda.
Il tramonto allunga le ombre nel giardino dell’Hospital de Nuestro Señor de Malta, a Vallegrande. Quando raggiungiamo la lavanderia è già quasi sera. Messaggi scritti con la vernice rossa ricoprono le pareti e il lavabo in cui venne adagiato il corpo per dar prova al mondo della sua morte. Le foto dell’epoca ce lo ritraggono così, con gli occhi puntati verso l’alto, la barba incolta e i capelli lunghi. Qualcuno ci vide una certa somiglianza con Gesù e per questo lo si soprannominò il Cristo di Vallegrande. Tra la gente del posto c’è ancora chi lo adora come un santo, San Ernesto.
Nella fossa comune in cui venne sepolto con i suoi più fedeli compagni rimangono delle pietre con dei nomi e delle date. I resti, riesumati solo nel 1997, volarono verso Santa Clara di Cuba e i funerali di stato, i tributi e le onoreficenze. Qui restano gli alberi piantati dai figli, dagli amici, da chi a è riuscito a sopravvivere e quegli eventi li ha potuti raccontare.
Ci allontaniamo dalla pista dell’aeroporto dove sorge il mausoleo commentando la grande verità scoperta in quel giorno impiegato a seguire le tracce di un fantasma del passato: Ernesto vive! Vive perché tutto qui parla ancora di lui, di un mito che a guardarlo da vicino è meravigliosamente umano.
Mi giro un’ultima volta a guardare quei luoghi che hanno visto e sanno, la strada polverosa, le stelle. Il mio viaggio continua.
Hasta siempre , Comandante!