La mappa della felicità
E’ indispensabile lasciar cadere l’ipocrisia del nostro tempo basato sulla sicurezza del sapere che non sa di essere un sapere generalizzato, ambiguo, inefficace. Un mezzo sapere, insomma. E’ indispensabile lasciar cadere l’ipocrisia che ci avvolge come un velo. Ecco: noi dobbiamo avere il coraggio e la saggezza di squarciare questo velo e, anche se potremmo vergognarcene, trovandoci nudi troveremo un vestito reale, che accarezza le nostre forme e non le nasconde. Non dobbiamo farci modificare da tessuti astratti, ma se questa è l’unica opzione disponibile sarà necessario guardarsi allo specchio prima di riuscire a scordarci della nostra identità.
Si capisce niente, o poco. E’ sempre stato così? Credo di sì, lo presumo almeno. Ho rivolto questa domanda ai “vecchi” e loro mi hanno risposto e continuano a rispondermi positivamente: su questo non siamo cambiati, c’è sempre stata la presunzione ipocrita del sapere. A differenza del passato, però – ed è questa l’unica differenza certa – abbiamo le chiavi del mondo. Siamo diventati veloci nell’apprendere, relativamente istantanei. Voli low cost, Internet, smartphone, enciclopedie online, social network hanno accelerato questo processo, istituzionalizzandolo. Il nostro cervello è plasmato e poggiato su un piano senza distanze dove il tutto è qui a portata di mano (o di mouse o di touchscreen). La nostra storia è inserita dentro un disco fisso se non quando è inoltrata dentro server in una zona del mondo a noi sconosciuta. Abbiamo delegato il custodire la memoria della nostra storia, la nostra storia personale e la nostra Storia fatta di tramandazioni scritte e orali. Non sappiamo più, ma pensiamo di saperlo, da dove veniamo. Siamo (chi più e chi meno) del tutto inconsapevoli della strada fatta e del presente ma pensiamo, allo stesso tempo, di sapere dove andare, di sapere dove stiamo andando. E quando non stiamo percorrendo la strada che avevamo previsto di percorrere cresce, dentro di noi, un senso forte di inquietudine. Forse non ci si accorge, consciamente, che è una strada diversa da quella che immaginavamo ma, inconsciamente, lo sappiamo. Forse non percepiamo di essere inquieti, ma in realtà lo siamo. Questa discrasia tra conscio e inconscio inizierà allora a creare dentro di noi dei piccoli tarli; piccole tarme inizieranno a rodere dalle radici la nostra robusta consapevolezza e più tardiva sarà la scoperta della finzione che ci ha protetti, più squarciare il velo sarà difficile poiché sarà diventato quasi scorza dura e pungente, atta a scacciare via la consapevolezza vera, la consapevolezza di noi stessi e di ciò che ci circonda, del contesto nel quale siamo immersi.
Severa sarà, allora, la distruzione di quelle che erano le nostre certezze che han formato anche le nostre opinioni. Severa ma necessaria poiché le misure della nostra massa e della nostra statura superano i limiti ricoperti dal velo ipocrita.
Dobbiamo puntare alla consapevolezza, conoscere sé stessi e quello che ci circonda. Un’analisi equilibrata serve a comparare il conscio e l’inconscio, ovvero ricercare quello che siamo veramente, la ricerca di una zona senza punti d’ombra. Riconoscere chi siamo e da dove veniamo è una fase molto importante della nostra vita sia come persona che come cittadino. E’ una fase fondamentale per capire dove stiamo andando veramente, per compiere delle scelte giuste, per capire veramente chi ci sta intorno.
Per fare questo serve distinguere la consapevolezza che deve avere la persona di sé da quella che deve avere il cittadino.
La persona deve ricercare l’armonia nella sua anima, nei suoi sentimenti, nella sua ragione d’esistere. Deve scoprire i propri lati nascosti, deve vedere le proprie paure e le proprie mancanze per poterle affrontare in una battaglia che potrebbe rivelarsi lunga e dolorosa. Deve smistare i ricordi, catalogarli, fissarli per poter osservare facilmente, ogni volta che vuole, le proprie radici dall’alto dei suoi occhi. Deve lisciare il più possibile il percorso intrapreso, il percorso della vita, per puntare alla felicità, all’amore per sé stesso che lo porterà ad amare gli altri.
Il cittadino, dal canto suo, deve riconoscere dei valori comuni agli altri cittadini legati comunque da un valore di solidarietà. Il cittadino deve capire che può cambiare, con la sua consapevolezza unita alla consapevolezza degli altri cittadini, la società circostante per migliorare le condizioni di vita, per potere essere inserito dentro ad un sistema che lo protegge e lo esorta a non vivere nell’inerzia.
L’essere persona e l’essere cittadino, soprattutto nella società del nostro tempo, sono due facce della stessa medaglia anche se a volte non ci si fa caso; una faccia influenza l’altra e viceversa, sia in maniera positiva che in maniera negativa.(metafora della ruggine?)
E’ ovvio che per potere interagire con gli altri cittadini, un cittadino deve essere visto e quindi vedersi prima come persona. E’ ovvio, inoltre, che prima di interagire con altre persone una persona deve stare bene con sé stessa, essere felice ed equilibrata. Sarà più facile affrontare le situazioni che la naturalità della vita ci fa incontrare, sicuramente è il modo migliore per vivere serenamente.
Ultimamente chiedo alla persone che incontro: “ma tu sei felice?”. Lo chiedo d’improvviso, quando sento che i discorsi che stiamo facendo sono molto meno importanti della felicità che non intravedo negli occhi di chi mi sta davanti. Nessuno mi ha risposto: “Sì, sono felice”. Nessuno.
In questo momento storico credo che la felicità sia una stella quasi irraggiungibile. Al massimo possiamo raccontarci che siamo felici ma, anche se raggiungiamo la felicità come persone, la felicità come cittadini (e in questo caso come cittadini italiani) non la riusciamo ad ottenere. Come se ci fossimo dimenticati che la felicità è un diritto non capiamo più niente di quello che siamo. E’ la discrasia tra conscio ed inconscio che si fa sempre più forte. Non siamo ancora a dei livelli di fame, non siamo in guerra e non siamo nemmeno in dittatura (lasciando perdere la dittatura della stupidità, per dirla come Giorgio Gaber) ma sentiamo che siamo cittadini persi. Sentiamo che non possiamo più programmare nulla. Il futuro è appeso a contratti a progetto oppure appeso alla casualità delle tasse da pagare che strozzano ogni prova di intraprendenza. I giovani non escono più di casa, non si sposano più, non fanno più figli.
Un Paese senza giovani è un Paese senza idee, senza ricambio di linfa. Il fatto è che questo Paese i giovani li sta avvilendo. Questo che vi ho posto è il primo esempio di correlazione tra essere cittadini ed essere persone, di quanto l’essere cittadino triste ed incompiuto non possa rendere una persona pienamente felice e soddisfatta. Ma non possiamo fermarci ad esempi scarni e che possono essere facili prede di pura e sola indignazione e luoghi comuni: dobbiamo cercare di andare oltre a questo e per non fermarsi alla rabbia dobbiamo prendere la parola, dobbiamo essere propositivi. Per essere propositivi dobbiamo però anche essere il più possibile consapevoli di tutto quello che ci circonda. Maschereremo così le leggi della società, i meccanismi e gli intoppi che non fanno girare al meglio il disco.
Questo, nella strategia che stiamo adottando, sarà il primo passo verso la felicità.