Il primo giorno di scuola
Settembre è il mese del primo giorno di scuola, quello della fine dell’estate. È il mese in cui sono nata. Bello e bastardo. Tutto ciò che vive in mezzo alla transizione lo è. Ti aspetti sempre qualcosa da settembre, perché ai primi freddi, quando lasci le magliette a maniche corte e al mattino devi mettere su la felpa, significa che i giorni davanti sono tutti nuovi, diversi.
Come il primo giorno di scuola, appunto.
Lei era una delle poche donne al mondo a potersi permettere di tingersi le labbra di un colore così intenso e provocatorio senza apparire volgare
Avevo il magone. Un nodo alla gola che non andava nè sù, nè giù. Volevo starmene a casa mia, a giocare in giardino, scalare gli alberi come se fossero stati montagne, montare la tenda degli indiani e farci entrare dentro le tartarughe. A me, della scuola, poco importava. Era solo qualcosa che mi avrebbe allontanato dai miei genitori, costretta a stare con bambini che non conoscevo e con i quali avrei dovuto stringere amicizia. Dovuto, non voluto.
Rischiai di piangere ancor prima dell’appello.La stanza era grande, la scuola di epoca fascista costruita in un paese vicino Firenze popolato da catto-comunisti aveva stanzoni immensi, finestre infinite che raccoglievano i colori del giardino e le bizze di un cielo che quel giorno era intensamente azzurro. La classe era la I B.
Ventisei bambini, i banchi ordinati in tre file.
Dietro la cattedra c’era la maestra. Esile ma determinata. Aveva gli occhi di ghiaccio, così trasparenti da sembrare vetro. Una veste nera, che metteva su appena entrata in classe. Scarpe con il tacco quadrato. Capelli biondi, rossetto rosso. Lei era una delle poche donne al mondo a potersi permettere di tingersi le labbra di un colore così intenso e provocatorio senza apparire volgare. Non c’erano schiamazzi in aula, nonostante fossimo tutti bambini di sei anni la cui unica occupazione, fino a quel giorno, era stata il gioco. Quella esile figura vestita di nero in fondo alla stanza aveva ottenuto il nostro rispetto ancor prima di presentarsi.
A me piacque subito. Sarà per questo che deglutii, il magone se ne andò e sorrisi.
In prima fila un bambino iniziò a piangere a dirotto. La maestra lo portò alla lavagna. Non riusciva a smettere. Le lacrime parevano immense gocciole gelatinose che non gli si scollavano dal viso.
Io intanto guardavo l’aula, quel grande posto nuovo destinato a diventare un po’ casa. Le carte geografiche appese alle pareti ci facevano conoscere un mondo schiacciato, a forma di ellisse. L’Italia era bella con il suo lungo stivale, lo sperone e le isole, con il mare che ne segnava i contorni e si faceva più scuro a seconda della profondità.
La bacchetta della maestra correva veloce lungo quel mondo dipinto su carta. Bastava allargare le braccia per prenderlo tutto
La bacchetta della maestra correva veloce lungo quel mondo dipinto su carta. Bastava allargare le braccia per prenderlo tutto.
Di quel giorno non ricordo nient’altro, se non il trillo prolungato della campanella e le bidelle che somigliavano alle nonne buone, grasse e rotonde. I cinque scalini che portavano verso l’uscita, il primo quaderno a righe e il lapis per prendere confidenza con la scrittura. Il mio grembiule bianco, con le cifre ricamate in blu, sul petto. Il sussidiario.
La bellezza dell’infanzia che torna, in un pensiero a ritroso, ogni volta che arriva settembre. E con settembre il primo giorno di scuola.
