Figli di una città minore

Lo svantaggio geografico è un dato di fatto. Uno ne prende consapevolezza quando ci si trova a confronto. Per esempio mia figlia è nata a Ouagadougou; nessuno può negare che se nasci lì, uno svantaggio fondamentale l’hai. Sei in uno dei posti al mondo in cui hai meno chance di sopravvivere, e non è cosa da poco.

Quante volte mi sono sentita dire da persone che vengono a Livorno a prendere i traghetti per le isole: Ma è proprio brutta la tua città…

Come posso contraddire gente che arriva dall’autostrada e vede la Stanic o Eni che dir si voglia, e dalla raffineria levarsi in cielo, accompagnato dall’inconfondibile profumo Eau de Idrocarburò, quel fumo nero che con il vento di terra viaggia proprio in direzione degli stabilimenti balneari.

Gente che si fa tutto lo svincolo Calambrone-Darsena Nuova per arrivare in fronte a una bella Moby che attracca, mostrando tutta l’imponenza del canarino Titty.

Gente che sta due ore alla Stazione Marittima mangiando un panino rinsecchito, senza neppure sapere che lì dietro c’è il quartiere della Venezia coi suoi palazzi barocchi, i suoi fondaci, le fortezze; e ci sono i ristoranti del porto che offrono squisito pesce.

Insomma, siete di fretta per il mare e va bene, ma una volta fatevi un giro, guardate qualcosa. Sì non sarà la grande storia, le fascinose bellezze artistiche e architettoniche di altre città toscane, per carità; eppure ci sono angoli segreti che hanno il loro fascino, la loro piccola curiosità da narrare. Prendetevi per esempio L’AltraGuida di Annalaura Bachini, una grafic-artist livornese trasferitasi di recente nelle campagne fiorentine; fatevi narrare la Livorno di Giorgio Caproni, o quella che trovate in bellissimi film. No, non solo quelli di Paolo Virzì, che oggi tutti conoscono, ma Le notti Bianche di Fellini, o il Sorpasso di Risi per citarne un paio. Fatevi un giro nei luoghi descritti da poeti, scrittori quali Herman Hesse, Palazzeschi, Malaparte. Forse avrete un altro sguardo sulla città di Modigliani e Mascagni; la apprezzerete magari passeggiando sulla spettacolare terrazza a quest’ultimo intitolata.

Ma allora perché ho aperto con lo svantaggio geografico? L’ho fatto perché nascere a Livorno è un destino che non pare poter diventare luminoso. E’ un certo marchio di provincialità, di cialtroneria. Noi livornesi sembriamo destinati ad essere “figli di una città minore”. E a rendercene persino conto, con rassegnazione. Ritengo invece i miei concittadini dotati di un geniaccio innegabile. Sono comunque sempre unici, nel loro genere. Liberi pensatori, insofferenti alle regole, nati dalle proficue mescolanze sanguinee di una colonia penale fondata ormai alle porte del Rinascimento per ripopolare e bonificare una zona costiera da adibire a porto. L’ultima nata tra le città toscane deve la sua esistenza all’Arno che piano piano chiuse l’accesso al mare della vicina Pisa (quasi a dire che ringraziamo Pisa di esistere! ).

Livorno fu nuovo accesso a mare e porto franco, attirando i commercianti dal mondo, e offrendo cittadinanza alle diverse individualità religiose e politiche. Quindi a Livorno siamo tutti stranieri, tutti migranti, tutti viaggiatori: la tolleranza a Livorno dovrebbe star scritta nel dna. Il livornese anche più radicato resta straniero in qualche fondo dell’anima, vivendo sdoppiato tra l’affezione al proprio luogo e la sensazione che ci sia un altrove a cui appartiene, che lo chiama. Incapace di realizzarsi appieno nel qui e di abbandonarlo, allo stesso tempo.

Fisicamente è prestante e sportivo; Livorno fornisce alla squadra olimpica italiana un numero elevato di atleti di prim’ordine. Ma è difficile sentir parlare dei livornesi per i loro reali pregi: si finisce sempre per essere sulla bocca di qualcuno per questioni “limitrofe” al merito reale. Facile che uno sia più conosciuto per i suoi guai o per i suoi errori, che per le sue capacità. Ti si appiccica addosso quello stampino di livornese, al quale per certo verso si è sottratto solo il presidente Azeglio Ciampi: con la sua livornesità è riuscito a farsi perdonare la grigia e scomoda appartenenza a un sistema economico che aveva nelle banche centrali il proprio baluardo.

Il livornese non si prende mai troppo sul serio, e manca cronicamente di fiducia nei proprio mezzi. Non che non sappia di avere del genio, è che il beneficio estremo del dubbio glielo fa mettere in qualche modo sempre in discussione, questo genio. Oppure si sente incompreso, e comunque non farebbe mai niente per convincere del proprio valore qualcuno che ne dubiti .

Io non voglio in questo caso guardare alla mia livornesità  con gli occhi della nostalgia, che pure ti prende quando per gran parte della vita sei stato lontano dalla tua città; piuttosto voglio valutarla con gli occhi di una “Weltanschauung” che ho maturato nel lungo tempo di questa lontananza. Riconosco in questo atteggiamento una preziosa virtù, più che un difetto. Il dubbio, il non sentirsi mai arrivato, non sono forse capisaldi della crescita, della messa in discussione del sé? Questa incapacità di sgomitare, la rinuncia pacifica a scalare necessariamente una piramide sociale, il fatalismo tipico della mia gente, non sono in fondo moderni, quasi “orientali”, così diversi dall’atteggiamento mitteleuropeo che ha permeato la nostra educazione sociale sin qui?

Il livornese se ne va al mare, si mette in costume e spesso fa il bagno anche a dicembre, e invece di arrovellarsi per risolvere i problemi aspetta che siano i problemi a risolvere lui. Spesso, in questa distanza inediosa dalla vita, è nascosta una forte capacità creativa, un istinto a reinventarsi sempre, a saper cominciare ancora da capo, diversi e non importa come.

Il livornese è spesso un po’ underground, off, come direbbero a Broadway. Non è fuori moda, ma oltre le mode. Guardando a molti degli artisti dell’attuale panorama livornese, è facile cogliere questa tendenza che si riallaccia all’eredità di Piero Ciampi, lo chansonnier italiano, uno dei padri della canzone d’autore. Già personalità quali Nada, cresciuta nel solco della tradizione melodica, come Ciampi a suo tempo, si sono poi rivelate alla lunga nella loro originalità. Personalità quali l’eclettico, unico e vero Bobo Rondelli, per me uno dei poeti con la chitarra più singolari e talentuosi d’Italia, che di recente si esprime affiancandosi all’ Orchestrino, una brass band composta da elementi della scena jazzistica nazionale e internazionale quali il grande sassofonista Dimitri Grechi Espinoza. O i Virginiana Miller capitanati dallo scrittore Simone Lenzi. Non tralascerei nemmeno la forte esperienza di chanson e teatro musicale contemporaneo fondata da Alessandra Falca con FalcaMilioni  e Teatrofficina Refugio, e quella potente e provocatoria inaugurata da Lamberto Giannini, pedagogista e didatta, con la sua compagnia Mayor von Frinzius, che mette in scena testi di forte impatto avvalendosi anche di attori protagonisti diversamente abili.

D’altronde già negli anni ’70, nelle sale comunali di via degli Asili (più tardi negate dall’amministrazione allo storico gruppo) il “filosofo” Giancarlo Sacripanti aveva iniziato la sua tradizione di teatro con e per i giovani con il Gruppo Teatro Zero, di cui oggi la compagnia Atelier del Teatro prosegue la tradizione. Senza poi voler elencare le personalità  che non restando nella propria città hanno portato in giro per il mondo eccellenza e originalità nella musica, nella danza, nelle arti e nella scienza; faccio solo tributo a Luca Mainardi, musicista e produttore livornese scomparso a Londra nel 2009, artista troppo poliedrico per la nostra realtà.

Nonostante questo fervore creativo, infatti Livorno resta una realtà tarpante per i propri figli. Nessuno dei rappresentanti dello spirito del luogo ha l’impressione che la propria città si faccia promotrice e dia impulso ai talenti. Tutto sembra inespresso, trascurato, come le strade cittadine, come i pochi monumenti; la città vive ripiegata su se stessa, senza guardare mai avanti.

La città di eredità anarchica, quella dove Gramsci e Bordiga fondarono il Partito Comunista Italiano, la prima a sentirsi abbastanza moderna da ratificare nell’Italia mai libera dal giogo vaticano un’appartenenza ideologica marxista, ha spento nel dissesto amministrativo della più recente sinistra ogni speranza di riscatto del popolo, di uguaglianza sociale. La stessa città che dopo aver dato i natali ai Ciano, grandi personalità del fascismo italiano – Costanzo a cui fu promesso un mausoleo di proporzioni titaniche che non vide mai compiutezza, e Galeazzo che sposò la figlia di Mussolini – è stata per anni uno dei baluardi della sinistra storica italiana, è oggi insieme a Parma uno dei comuni che hanno espresso il loro dissenso con le amministrazioni passate dando chance a un governo cittadino pentastellato.

D’altronde i livornesi sono davvero difficili da “irreggimentare”, ed era ora che il cambiamento avvenisse, per rimettere un po’ di cose in discussione. Da questa rottura con la tradizione non possono che nascere nuove occasioni; il nocciolo duro dei cittadini rimarrà critico e libero nel pensiero come lo è sempre stato. Il recupero di questa città allo sbando non si presenta facile; d’altronde, proprio mentre chiudono fabbriche e negozi, il porto perde a mano a mano importanza e commesse, e il mercato del lavoro è asfittico come non mai. Eppure la città delle grandi famiglie ebree sefardite accolte ai tempi del porto franco per aprire le vie dei commerci, quella dei grandi spedizionieri, dei cantieri navali deve avere da qualche parte le sue ricchezze nascoste! Com’è che Livorno si presenta sempre così priva di glamour, così opaca. Perché sembra sempre covare solo sogni ridicoli – così bene espressi nell’ironia locale –  e speranze che se ne vanno via insieme all’abbronzatura…

Mentre da tempo mi ponevo queste domande, mi è venuto in soccorso l’amico Stefano Lucarelli, grafico, batterista e figlio dello scrittore Vasco Lucarelli (quest’ultimo ha descritto il costume e la tradizione livornese dal dopoguerra a oggi in pregevoli opere letterarie).

Stefano ha rivelato una sua (e forse non solo) fantasia di ragazzo: che proprio la base dell’irrealizzato monumento a Costanzo Ciano in quel di Montenero, quell’enorme cubo-mausoleo sperso nella macchia mediterranea che doveva diventare la base di una statua monumentale  (grazie alla caduta del fascismo tale effige è rimasta a giacere ancora incompleta sull’Isola di Santo Stefano nell’Arcipelago della Maddalena!), altro non sia che il deposito di Paperon de’ Paperoni. 

Ma certo, come non averci pensato prima! Lo zio si è portato lassù tutta la ricchezza di noi poveri livornesi, paperini perfetti, dal primo cent in poi, lasciandoci sempre lì a sognare imprese irrealizzabili per fargli scucire qualche dollaro a nostro favore. Certo che poi noi avremmo usato i pochi soldi elargiti dal taccagno progenitore per andare al mare a sognare l’America, o per realizzare i nostri improbabili talenti pigri e un po’ underground, di pennuti popolari e poco lungimiranti, destinati a un futuro che di luminoso ha solo lo sbrilluccichio del mare, e degli splendidi tramonti.

Ma da dove si gode,  a Livorno, la più bella vista possibile su tutte le isole, fino alla Corsica, e sull’orizzonte, su quegli struggenti tramonti della mia città? Proprio da lassù, dal deposito di Paperone – mausoleo dei Ciano.

Andateci, e capirete.