Racconto di guerra
Da bambina non ho avuto mai una vera predilezione per le storie di principesse regine principi fate e maghi. Mi sono sempre piaciute le storie che facevano volare la mia fantasia su terre a me sconosciute; il Polo Nord con gli orsi bianchi e il Polo Sud con i pinguini, e poi le enormi balene e le foche. La mia immaginazione la facevo viaggiare sopra città lontane e splendide, nelle quali la gente vestiva assai diversamente da noi, abiti lunghi e variopinti, strani copricapi sulla testa, penne e piume, tatuaggi superbi sul corpo. Facevo voli pindarici e mi prendevo qualche licenza da mito, raffigurandomi donne e uomini bellissimi cavalcare draghi potenti, cacciatori e lupi che vivevano uno accanto all’altro, in simbiosi.
Mi piacevano e mi piacciono tuttora moltissimo anche i racconti di paese, quelli che si sussurrano per strada, quelli che la cronaca non cita, quelli che si tramandano oralmente.
Quand’ero in vacanza dai miei nonni materni dormivo in una stanza grandissima con soffitti alti alti: sdraiata nel mio letto mi pareva di essere un moscerino. Facevo fatica la sera a prendere sonno; allora nonna veniva da me e mi raccontava qualche storia. La mia preferita era un fatto avvenuto durante la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi, anche singolarmente, non in gruppo, ormai allo sbando completo e incalzati dalle truppe americane che avanzavano, fuggivano.
In questo paese del Lazio dove risiedeva la mia nonna in estate, un giovane soldato tedesco, giovanissimo, quasi un bambino, fu trovato morto: ucciso nelle campagne vicino alle terre di proprietà della mia famiglia. Mia nonna – a quel tempo una donna già fatta – lo vide bene in volto il ragazzo tedesco ammazzato, e diceva spesso che non riusciva a scordarsi l’espressione che era impressa su quel viso.
Non so perché ma questo racconto non m’impressionò mai più di tanto, nel senso che non mi fece mai davvero paura, pur essendo io ancora bambina. Al contrario mi faceva provare, ogni volta che l’ascoltavo, un sentimento d’immensa pietà e una sorta di guardinga riserva verso i miei simili: cominciavo a rendermi consapevole della capacità dell’uomo di far male al fratello, a colui che è fatto a sua immagine e somiglianza.
Tornando alla nostra storia, il ritrovamento del giovane tedesco ammazzato, anche a quei tempi, tempi in cui la morte era compagna assidua di tutti quanti, fece scalpore in paese. Si cominciò a bisbigliare che il colpevole fosse un contadino che abitava lì nei pressi ed aveva fama e nomea di persona rude e violenta. Questi non si prese la briga di smentire né allora né negli anni addivenire: girava tronfio e baldanzoso per le vie del paese, a guisa di brigante eroico. Qualcuno che viveva vicino al luogo ove fu trovato il corpo del ragazzo tedesco giurava di aver sentito la notte prima della sua morte grida strazianti, una voce adolescente che implorava pietà, piangeva e supplicava ed esclamava, di tanto intanto, in mezzo ai lamenti, un’ invocazione, “Mamma!”, in italiano stentato. E una voce aspra e crudele sopra, senza pietà. Poi ingiurie; “Sporco bastardo!”, e spari.
Chiacchiere di paese, chissà…
Anni dopo, una decina d’anni circa, i due figli del contadino si ammalarono di poliomielite. Due ragazzoni grandi e grossi, con le gote rosse come una mela, pieni di vita, che correvano e saltavano tutti i santi giorni per i campi, in un batter d’occhio si paralizzarono. A quei tempi chi non moriva di poliomielite rimaneva paralizzato per tutta la vita. Tutti dissero che era stata la punizione per l’assassinio del ragazzo tedesco: le colpe dei padri ricadono sui figli.
E in paese, quando il contadino passava e spingeva una delle carrozzelle dei figli, la gente sbirciava dalla finestre o dall’uscio. Il contadino scarmigliato e sudato spingeva la carrozzella per le viuzze in salita del paese asciugandosi il sudore, e bestemmiava forte, per farsi sentire da tutti: bestemmie tremende, che mia nonna naturalmente non osava pronunciare.
Una storia non comune, con un epilogo ben diverso dal solito “…e vissero felici e contenti“. Una storia vera, senza vincitori, soltanto vittime e carnefici, e vinti.
Alla fine del racconto nonna mi dava la buonanotte ed io restavo sola nel grande letto, nella stanza dai soffitti altissimi. M’immaginavo il volto del soldato tedesco, mi faceva compassione e tenerezza. Dicevo una preghierina per lui, perché riposasse in pace, e mi addormentavo, finalmente. Una volta, ancora adolescente, lo sognai. Mi apparse come me l’ero sempre immaginato. Giovanissimo, coi capelli biondi, gli occhi tristi, senza sorriso. Mi svegliai di colpo: non avevo provato paura, ma mi misi a piangere, di dolore.
Mi misi a pregare, cercando sollievo.
Allora ancora sapevo pregare.