Silenzi di Voci
Un tale una volta mi disse che il quadro capolavoro si distingue dal quadro carino o dal bel quadro, semplicemente perché quando ci troviamo di fronte a un capolavoro si innesca una specie di effetto calamita: non riusciamo a staccarci gli occhi di dosso, a disperdere il nostro sguardo altrove.
Le arti visive, d’altra parte, sono questo: voragini aperte che, con i loro colori, le tinte unite o variegate e i giochi di luce e ombra, ci fanno precipitare direttamente dentro una sensazione di vago, ma anche di familiare, come uno squillo di tromba che irradia gli occhi e il cuore, simile ad un caleidoscopio di nomi, luoghi, facce e scenari.
Ora, mi sembra palese che ognuno ha i suoi gusti. A chi piace rimirare gli affreschi del trecento intonacati in qualche chiesa o abbazia, e chi invece preferisce la dinamicità plastica delle tele espressioniste o surrealiste. Credo che l’anima di ciascuno di noi stabilisca un rapporto intenso e non ripetibile con un’opera visiva: ci entra dentro oppure resta fuori, e non c’è niente che noi possiamo fare. Un’immagine piace o non piace, comunica o resta in silenzio, apparendo solo come uno schizzo in più sulla parete di un museo.
A me personalmente la realtà ordinaria in cui viviamo è sempre risultata stretta, e se esiste un modo semplice e quasi sempre economico per evadere, è proprio attraverso un’immagine, la prima porta verso una galassia lontana lontana…
Uno dei miei quadri preferiti, non a caso, è questo: “Sogno causato dal volo di un’ape intorno ad una melagrana un attimo prima del risveglio” di Salvador Dalì. Il pittore catalano è forse uno dei miei favoriti, sia per soggetti rappresentati sia per stile pittorico. I quadri di Dalì ci mostrano come in realtà dovrebbe essere il subconscio umano: un continente di visioni oniriche e di forme geometriche sconosciute, che assomigliano a boati della terra, a uragani ordinati che proprio nel vortice del caos trovano il loro modo di disporsi in fila, senza sbavature alcune. In questo universo uomini, animali, forme nude di donna o paesaggi marziani trovano una loro naturale collocazione, e spesso finiscono per perdersi gli uni negli altri, facendo si che nel quadro sia distinguibile solo l’eccessiva vita e la natura che scalcia, si agita, preme sul petto come un neonato premerebbe sugli organi interni di sua madre nell’atto di nascita.
Un altro quadro che desta questa sensazione è il “Carnevale di Arlecchino” di Joan Mirò. Anche qui ci ritroviamo immersi in una dimensione parallela, in un’isola fatta da forme di vita minimale e da cerchi e prismi concentrici. Un carnevale per l’appunto…anche se è ignoto fino a che limite una festa del genere possa spingersi. I segni possono sembrare anche solo degli scarabocchi, degli aborti artistici, ma non è così.
La minimalità stilistica di Mirò ci insegna che per riempire una tela basta lasciare che essa si evolva spontaneamente, come se si dipingesse da sola. E il vuoto spoglio di Mirò diventa per i nostri occhi un pasto completo di luci e suggestioni che talvolta hanno l’effetto di tenerci svegli la notte, a rimirare più e più volte quelle regioni così insondate dell’animo umano.
Non è paragonabile ai precedenti, ma anche questa tela a mio parere getta in una sensazione di oblio simile, solo che questa volta il naufragare è più morbido, rilassato; ci invita a chiudere gli occhi e poi a riaprirli lentamente, come se fosse necessario abituarli alla fredda notte del deserto. Sto parlando di “The Sleeping Gypsy” di Herni Rousseau. Ogni volta che lo vedo è come se venissi attraversato da parte a parte da mille voci che gridano tutte insieme, voci che vengono da lontano, dalle notti d’oriente illuminate dal chiaro di luna. Sono come proiettili, mi passano da parte a parte, ma invece che ferirmi si depositano delicatamente tutto intorno a me, costruendomi una specie di culla intorno, un’amaca nella quale addormentarmi né più né meno come si addormenta questa zingara musicista, con i piedi affaticati dalle lunghe ore di cammino diurno sulla sabbia rovente, e completamente ignara del visitatore notturno che con un colpo di fauci potrebbe allontanare per sempre il suo risveglio.
I quadri, come ho detto, parlano o non parlano. Ci sorridono o ci voltano le spalle, allo stesso modo di come si comporta qualsiasi opera visiva. Quello che però rimane sicuro è che per esistere tutti noi abbiamo bisogno di immagini che ci rappresentino, ci aiutino a decifrare il mondo. In fondo le immagini fanno parte del nostro pensiero ancora prima che venissero le parole. Sviluppando ambedue gli oggetti, e cercando di andare sempre di più nel cuore del problema, alla radice dell’ispirazione e della creatività, la civiltà umana è riuscita a elaborare un mezzo che permette alle immagini di diventare parola, alla narrazione di diventare movimento visivo: quel mezzo è il cinema, che più di tutti riesce a trasformare le sensazioni da noi provate davanti ad un quadro in sequenze complete e infalsificabili di vita e storia.