Sincerely, L. Cohen
È il 29 Luglio, sono sul treno che da Anversa porta ad Amsterdam; Belgio e Olanda sono collegati benissimo, le corse sono frequenti e i prezzi ragionevoli . Nei treni appare sempre la scritta luminosa “Bestemming”, che in olandese vuol dire ‘fermata’ o ‘destinazione’, ma nel mio vocabolario personalizzato, nella mia Nonciclopedia mentale, vuol dire chiaramente “bestemmiando”. Che poi per un italiano non c’è abbinamento migliore di “bestemmia” e “treno”, vanno proprio a braccetto, sono inscindibili.
È il primo viaggio che faccio da solo. Beh, non proprio da solo. Di fronte a me Melissa guarda dal finestrino i nuvoloni grigi che ci sovrastano. Ogni volta che mi trovo in questa parte d’Europa ho sempre l’impressione che i cambiamenti climatici vissuti in Italia nell’arco di mesi, si ripetano lì nell’arco di una sola giornata. Melissa è una simpaticissima ragazza olandese, decisamente atipica.Un bel giorno ha deciso di trasferirsi ad Aversa (provincia di Caserta), città in cui vivo e in cui l’ho conosciuta, per poi andarsene due anni dopo a studiare medicina ad Anversa (in Belgio, la cosa dovrebbe farvi ridere almeno un po’). Melissa dice “diciassei”, “il carne”, ma nonostante questi dettagli parla italiano meglio di molti italiani, e capisce pure “ ‘o Napulitan”!
Durante il tragitto mi racconta che a Delft, città nel sud dell’Olanda, dopo una ristrutturazione, le ferrovie hanno regalato ad un club di studenti la locomotiva di un treno. Ricordatevi bestemming. Pare che qualche dirigente facesse parte di tale club in gioventù, mi sto informando meglio, ad ogni modo gli studenti l’hanno giustamente utilizzata come sala d’ingresso del party dell’anniversario del club, durato appena due settimane. Questo club di studenti, tra l’altro, è anche il maggior acquirente nazionale della Heineken. Particolare questo che fa pensare sappiano organizzare un party!
Il viaggio dura un paio d’ore, Amsterdam mi saluta con la pioggia, non il miglior benvenuto, pardòn, bentornato. Non abbiamo nè stanza nè bagagli, dovremmo trovare ospitalità da amici di Melissa, così ci dirigiamo verso uno dei miei coffee shops preferiti.
Gustiamo prelibatezze e aspettiamo in un’accogliente atmosfera la fine della pioggia, poi usciamo a mangiare qualcosa e passeggiamo lungo i canali meravigliosi che ricamano la città. Rivivo quei luoghi che sento un po’ miei, visti più volte ma mai vissuti allo stesso modo. Specchiandomi nell’acqua cerco il riflesso di ciò che ero, lasciato lì in quello stesso canale in cui mi guardo ora, come a voler trovare conferma di essere cresciuto. La mia esperienza mistica viene improvvisamente interrotta da un’infausta notizia: non abbiamo un posto per dormire. Vi auguro di non trovarvi mai il 29 luglio ad Amsterdam senza una stanza. Parte un’interminabile ricerca seguita da una sfilza di “sorry, we are full booked!”, ricerca resa ancora più difficile dal nostro budget limitato. Ricomincia anche a piovere. Con scarso ottimismo, ma senza arrenderci, continuiamo la nostra ricerca allontanandoci gradualmente dalla zona centrale.
Camminiamo lungo una strada alle spalle di piazza Dam. Guardo scorrere davanti ai miei occhi le case arancioni, blu e bianche, le insegne dei negozietti e i bassi, così simili a quelli di Napoli.
Mi è sempre piaciuto perdermi nei motivi di quell’architettura, non mi dispiace che le case siano grossomodo tutte uguali viste dall’esterno, è qualcosa che preferisco al caos architettonico delle mie zone. Nelle zone che mi appartengono quando si costruisce non si pensa minimamente a quello che c’è intorno, il concetto di armonia non trova spazio, in nessun ambito, e si annulla e scompare in asfissianti mostri di cemento.
Ad un certo punto noto un’insegna, molto scarna, per nulla appariscente, che indica un ostello proprio in uno di questi bassi. Scendo delle scale malandate e una volta dentro, appena poggio piede nell’ingresso parte lei:
Il cuore rallenta, come se non avessi mai camminato affannosamente sotto la pioggia, recupero fiato. La stanza è scura, attorno ai grandi tavoli rotondi di legno nero i ragazzi giocano a dama, sorseggiano qualcosa di fresco, fumano e chiacchierano. Persone diverse, da posti diversi e con storie diverse, racchiuse in un pugno d’atmosfera che sa di casa. Centro metri quadri che sussurrano armonia. E Cohen canta. Racconta. Lo fa senza paroloni, sotto forma di lettera, ed è magnifico pensare questa semplicità rapportata al significato enorme di ciò che dice. I suoi versi trasudano autenticità, e come piccole bombe nucleari distruggono le mie difese e mi riportano ad un livello più umano. Mi fa male quello che dice, lo amo per questo. Cristo diceva che la verità ci rende liberi, io penso che la verità ci renda umani. Andare anche oltre le proprie opinioni e cognizioni per raggiungere un livello più profondo dove c’è quello che si prova davvero. Cohen mi riporta alla realtà, che spesso non è quella che vediamo ma quella che neghiamo. Parlo della realtà interiore, quella che muove i nostri comportamenti. E con lui mi immergo in un altro punto di vista, e per quanto farlo sia doloroso, il suo perdono è una goccia di splendore.
And thanks for the trouble you took from her eyes
I thought it was there for good so I never tried
Ma a proposito di ritorni alla realtà, giunge il mio turno alla reception. Imploro il tizio di darmi una stanza , lo faccio solo col viso perché non so implorare in inglese, ma ottengo l’ennesimo no. Sconsolato proseguo altrove la ricerca, conservando però saldi nella memoria quei pochi, eterni attimi.
Finiremo in un hotel senz’anima e senza asciugamani nel red light district. Con un motivo nella testa.