Leggere (o della rivoluzionaria che fu mia nonna)
Se qualcuno di voi, e spero siate in tanti, ha letto Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, ricorderà un personaggio secondario caratterizzato da una scelta alquanto originale: disimparare a leggere. Questo giovanotto di cui non ricordo il nome, ammesso che l’autore gliene abbia assegnato uno, aveva scelto di dimenticare l’alfabeto, i simboli convenzionali, le regole grammaticali. Una sorta di analfabetismo di ritorno, un viaggio al contrario di ispirazione rousseiana alla ricerca del buon selvaggio. Oppure una scelta anarchica, il rifiuto di quanto di più convenzionale e stabilito abbia creato la mente umana. O, ancora, la necessità di un isolamento totale, una roba da stilita contemporaneo in fuga dalla giungla di fonemi metropolitana.
Ora, non ci è dato sapere il motivo alla base di una scelta tanto radicale. Dal canto mio, posso affermare che talvolta mi trovo ad invidiare il personaggio di Se una notte d’inverno un viaggiatore e il perché è presto detto: non leggere (“dimenticare” a questo punto sarebbe impossibile) significherebbe depurare il cervello dalle scorie di una civiltà che necessita di fissare tutto e tutti su carta intestata, che lancia messaggi ignobili, riverbera l’inutile, condivide il banale, diffonde l’assurdo, oggettiva l’oppugnabile, teorizza il nulla. Significherebbe alleggerire la mente dal peso di caratteri tipografici accostati troppe volte a caso, liberare la retina dalla prigione del già scritto e sentito.
Per questo si aggrappava alle parole, accettava di sgranarle a fatica e talvolta senza risultato. Era una rivoluzione
Oppure penserò a mia nonna, che poi non siamo lontani dai contadini di Pasolini. Lei toscana e loro friulani, certo, ma si sa, il contadino sempre contadino è. Più dell’operaio, Marx permettendo, è lui il primo internazionalista. Lei, nata sull’Appennino un secolo più un anno fa. Lei che fece la terza elementare e comunque era già tanto perché i genitori non distinguevano una B da una A, che perse il diritto ad una figura paterna per colpa di un proiettile asburgico in quel del Carso, che ebbe il primo paio di scarpe a dieci anni, che vangava la terra a dodici. Lei, soprattutto, che passò tutta la vita aggrappata a quelle quattro nozioni che gli aveva fornito un improbabile maestro a cui ogni giorno doveva essere consegnato un pezzo di legno (e una coscia di pollo nei giorni comandati).
Era un mondo in cui leggere era un di più. Lode a chi sapeva pronunciare correttamente il nesso GN, ma pace e tranquillità per tutti gli altri. Un mondo orale, dove le parole non erano fissate, ma non per questo prendevano il volo. Mia nonna a ottant’anni leggeva come quando ne aveva undici. Il dito a fermare la riga tremolante, le sillabe scansionate una ad una, gli accenti sbagliati. E io, piccolo e sfacciato come tutti i figli della parola stampata, che la sfottevo per quelle vocali impazzite. Lei non si offendeva, ripeteva la parola con il giusto accento e, anzi, chiedeva spiegazioni in merito a termini albionici o semplicemente di conio posteriore al 1930. Terminava le frasi in tempi biblici e spesso non afferrava il senso di argomenti che non la toccavano minimamente. Piuttosto fissava l’attenzione su termini che la riportavano al suo mondo, come nomi di arnesi da lavoro capitati per chissà quale motivo tra le righe di “Oggi” e “Gente“. E allora si emozionava. Davvero. La morte di Amleto l’avrebbe lasciata indifferente, ma leggere la parola aratro in un editoriale di Susanna Agnelli hai voglia che sorrisi.
Più o meno coscientemente mia nonna aveva scavato un solco, fissato un prima e un dopo. Quel fottuto analfabetismo tramandato di padre, madre in figlio per secoli e secoli si era fermato con la sua nascita. Per questo si aggrappava alle parole, accettava di sgranarle a fatica e talvolta senza risultato. Era una rivoluzione. Meno sanguinosa di quella francese, altrettanto incisiva sui tempi a venire. Ecco, a questo penserò mentre vomiterò parole in eccesso in ogni dove: a mia nonna. Che leggeva stronzate forse più indecenti di quelle che mi vengono propinate ogni santo giorno, ma come ogni rivoluzionaria è troppo pura per essere accostata alle inevitabili storture dei processi di mutamento radicale. Le sue parole insicure si libravano sopra gli amanti di Lady Diana, oltre la separazione di Albano e Romina e compivano un rito che idealmente emancipava generazioni di zappaterra privi di lettere.
Voi, come me, siete invece pompieri. Quindi abbassate il volume a quelle tastiere, grazie.