Vanità vanesia

Sono solita rispolverare vecchie letture. Qualche giorno fa mi è capitata fra le mani La Fiera della vanità di Thackeray. Di nuovo mi è piaciuta. Ho trovato questo romanzo così attuale, la sua ambientazione e i suoi personaggi potrebbero essere trasposti, soltanto con lievi ritocchi, al nostro tempo. 

Una società che pone come immagine quella di un buonismo ipocrita, un perbenismo di pura facciata, ma che svela, appena grattata la superficie, senza nemmeno andare in profondità, i vizi, l’arrivismo, le passioni smodate, l’astuzia prevaricatrice e l’egoismo cattivo fine a se stesso.  Ed infine la vanità, nel senso più completo della parola, che fa intravedere i propri ed altrui limiti, e le debolezze. Becky Sharp ne è la degna rappresentante in tutte le sue sfaccettature. Senza approfondire l’analisi dei mali della nostra società, non possedendo ahimè né la capacità né il genio narrativo di Thackeray, vorrei limitarmi a porre qualche semplice esempio di vanità, spesso sciocca, a volte ridicola. Mi picco di essere un’osservatrice ma tento di guardare anche dentro di me. Sono arrivata alla conclusione che la maggior parte degli umani è vanitosa, anzi, sconfinando, possiamo dire che è vanesia. Anche io mi ritrovo ad esserlo in varie circostanze. Vedo genitori entusiastici che dopo il saggio di danza della figlia di otto anni vanno nel “camerino” comune e le porgono un fascio di rose rosse, novella Carla Fracci. La bambina per l’occasione è stata inviata dalla parrucchiera di famiglia, addirittura mesciata e dulcis in fundo acconciata con un pomposo chignon. La piccola danzatrice, tempo addietro beatamente ignara degli omaggi che avrebbe ricevuto, investita ora suo malgrado di cotanto ruolo, poiché i genitori fanno la ruota, giustamente si pavoneggia al loro pari. Si ritiene degna del tributo e se non dovesse più riscuoterlo nei prossimi frangenti, sicuramente se ne dispiacerà e s’indignerà.  Vedo giovani uomini con le sopracciglia arcuate o rifatte come le modelle in copertina, sommamente curati, i quali frequentano centri di bellezza e di massaggio più assiduamente dell’altro sesso. Passeggiano in spiaggia e noti che hanno le gambe e le braccia depilate, imberbi come neonati. Vanità sciantosa ma spesso inconsistente. Direte voi: ma che c’è di male in tutto questo? Nulla, siamo divenuti tutti soltanto più vanitosi, di una vanità un po’ esasperata. L’altra sera ad una cena-evento a cui partecipavano numerose persone, sedevo accanto ad una coppia, moglie e marito, belli in tiro, ambedue con al polso un orologio Rolex. Li avevo uno alla mia destra, l’altra alla mia sinistra. Per tutta la serata hanno esibito il suddetto orologio, sia l’uno che l’altra, sbattendomelo a piè sospinto, ogni volta che hanno potuto, sotto gli occhi. Ad un certo punto avevo la vista annebbiata, vedevo Rolex dappertutto. Ma la cosa più bella deve ancora arrivare. E’ giunta nella veste del cameriere. Mentre con destrezza posava i piatti con le portate sulla tavola, ho intravisto che anche al suo polso spiccava un superbo Rolex. Il simpatico cameriere si è accorto della mia attenzione per l’orologio e con fare spontaneo mi ha detto: “Signora le piace il mio Rolex? L’ho pagato pochissimo, l’ho comprato quest’estate in spiaggia da un vu’ cumprà”. Potenza e forza delle parole. Non aveva neppure terminato la frase che la coppia mia vicina, fulmineamente, in un battibaleno, ha ritirato il gomito poggiato sulla tavola con il rispettivo orologio in bella vista. Al che mi è sorto spontaneo un dubbio. Che la provenienza dei loro orologi fosse la stessa o simile o affine a quella del candido cameriere? Non ho ritenuto meritevole di approfondimento la questione. E a questo punto, essendo io imbevuta di reminiscenze narrative, mi sono ricordata di una pagina del libro Cuore di De Amicis, chi non l’ha letto? Votini detto il vanitoso, compagno di scuola di Enrico, il protagonista, sempre ben abbigliato con abiti costosi e sontuosi, fa una passeggiata con il suo amico. “Dice testualmente De Amicis: Votini era vestito bene, anche troppo: aveva gli stivali di marocchino trapunti di rosso, un vestito con ricami e nappine di seta, un cappello di castoro bianco e l’orologio. E si pavoneggiava.” Si siedono su di una panchina. Vi trovano un altro ragazzo, vestito dimessamente, col capo abbassato, malinconico. Un signore, presumibilmente il padre, passeggia poco distante. A Votini non par vero poter decantare e magnificare il suo abbigliamento ad un estraneo, alza lo stivale per mostrarne la bellezza, si tocca lo splendido cappello. Niente, tutto vano, il suo indifferente interlocutore non guarda e non dice nulla. Stizzito allora tira fuori la sua ultima carta, un prezioso orologio, sottolineando che è d’oro. Nessuna reazione. Più che mai imbizzarrito, non pago, non dandosi per vinto, sbatte l’orologio sotto gli occhi del ragazzo triste e gli dice: “Guarda, di’ tu se è d’oro o d’argento!” Il ragazzo non fa una piega e risponde semplicemente: “Non lo so”. Interviene il padre che aveva assistito da lontano alla scena, si accosta a Votini e gli dice a bassa voce: “E’ cieco!”. Votini a quelle parole sbianca, e sgomento, rammaricato, esclama con un filo di voce: “Mi dispiace, non lo sapevo”. Il ragazzo cieco, con la voce buona, gli risponde: “Non fa niente”. Votini per tutta la passeggiata non riuscirà più a ridere né a sorridere.

Riflessione spicciola. Qualche volta, quando ci viene richiesto dal buon senso e dall’evidenza dei fatti, dovremmo vergognarci anche noi. Almeno un tantinello.