Scontri clandestini
Domenica ero a Firenze e ho assistito a un piccolo qui pro quo. Eravamo in quattro: due bici, otto gambe, tassi alcolici variabili dal “come mi sento leggera e felice” al “domani sarà una pessima giornata”. Uno dei miei amici in bicicletta sputa per terra senza alcun particolare motivo. Per un puro caso lì vicino c’è un ragazzo, forse bengalese, forse no, convinto che lo sputo sia per lui. Continuiamo la nostra strada verso casa e questo tipo ci segue. Superiamo un semaforo con lui che cerca attenzioni, cerca scuse e cerca anche di menare qualcuno, credo.
Scende dalla bicicletta tenendo in mano la catena e cominciano a volare paroloni. Gli animi si scaldano, perché il confine tra testosterone+alticcio e ragionevolezza, in questi momenti, è davvero molto labile. Per tutti esclusi me, che ho dei livelli di testosterone molto bassi e un altro che, nonostante appartenga al gruppo del “domani sarà una pessima giornata”, ha un livello di ragionevolezza superiore alla media. Quindi che succede? Lui parla con il bengalese, io con gli altri due. Con scarsissimi risultati.
Appena sembra che l’amico della bicicletta sia tornato umano, il terzo che non c’entra niente comincia a parlare di un telefono che gli hanno rubato dalla macchina. Era uno di questi marocchini, dice. Era proprio uno di loro. E quindi vuole andare a menarlo. Perché è stato lui a rubargli il telefono.
Sono quei sillogismi che solo da sbronzi si riescono a raggiungere, non giudicatelo.
Così lo ammetto, non ce la faccio. Mi scambio di posto con l’uomo dalla ragione di ferro e vado a parlare con il bengalese, proprio quando ha appena fermato un altro straniero e gli sta chiedendo supporto. Arrivo nel momento in cui dice: “No, perché quello mi ha sputato addosso, capito? Mi ha sputato addosso perché italiano e razzista, loro non ci vogliono nel loro paese e quindi ci sputano addosso”.
Lo tocco. Contro ogni logica. Gli metto una mano su una spalla come se fosse un mio amico, come se non avesse una catena in mano, come se non fosse ubriaco. Mi viene naturale perché è così che si calmano gli amici dalle mie parti, si fa in modo di fargli capire che non c’è da aver paura, che tutto il contatto che avrà con te sarà affettuoso e per niente violento. Gli dico “Guarda, hai ragione. Hai ragione, gli italiani sono razzisti. E ti chiedo scusa io, a nome del popolino. Ma tu lo sai che il mio amico non sputava a te, non è razzista lui, se fosse davvero così qui sarebbe già scoppiato il macello e tu, invece, hai ricevuto delle scuse”. L’altro straniero mi guarda. Guarda lui. E se ne va senza dire una parola. E io guardo la sua schiena che si allontana con una certa invidia, devo ammettere.
Il bengalese mi si avvicina e mi dice “no perché tu non sai, poi sei femmina, ma qui la gente è razzista e i razzisti fanno così”.
Mi sembra di parlare con l’altro ragazzo, quello del telefono rubato. O con tutti quelli che cominciano i discorsi con “No, io non sono razzista, PERO’…”. E così gli dico che è vero, che i razzisti fanno così. È vero anche che ci sono marocchini che rubano, zingari che rapiscono i bambini, e cinesi mafiosi. Ci sono anche degli italiani che se potessi li caccerei via dal paese o li obbligherei a cambiare nazionalità. Ma questo non vuol dire niente. Non vuol dire che tu, bengalese con la catena della bici in mano, sei uno che ruba. Né che il mio amico con lo sputo facile sia uno di quelli che ti odiano.
Ma io sono femmina, che ne so.
Alla fine si è risolto tutto con una pacca sulla spalla (senza catena). La prima cosa che ho pensato, appena ripresa la bici, voltate le spalle e tornati tutti normali, è che deve essere proprio frustrante essere straniero in Italia, per arrivare a credere e pensare che tutti, dico tutti, ti odino. Come deve essere frustrante arrivare a guardare una persona e vederla solo come un potenziale pericolo. Così come è frustrante, per quelli come me, abitare in un paese del genere.
Giorni fa parlavo con una ragazza di politica e di come sarebbe bello se in Italia restassero solo gli anziani e gli immigrati, a mandare avanti le cose. E lei mi ha detto: no, non sarebbe ancora il massimo. Il massimo sarebbe che vincessero i leghisti e finissero a governare un paese fatto per la maggioranza di tutte quelle persone che odiano, di cui però avranno bisogno per tenere in piedi tutta la baracca. Perché noi ce ne saremo andati.
Ho immaginato la scena. Era così bella e soddisfacente che non potevo evitare di condividerla con voi.