Un cervo (speciale) alla fine del viaggio
Sono arrivato alla fine del mio viaggio e sono tornato da te, uomo. Non chiedermi perché un cervo abbia bisogno di finire la sua corsa cercando il conforto di una creatura che è nata per dargli la caccia. Non saprei risponderti, io non ho parole che tu possa capire. Dovrei anche cominciare a spiegarti perché ho cercato la tua amicizia invece di fuggire, e anche questo non è facile.
Forse qualcosa c’entra il freddo, la fame, un inverno particolarmente ricco di neve e povero di cibo nel bosco. Queste montagne sono tutto il mio mondo, sono anche il tuo, ne condividiamo la bellezza, il rigore dell’inverno, il fresco dell’estate, i colori dell’autunno, la rinascita primaverile. Io e te siamo quanto di più lontano possa esistere. Passo tutta la vita a fuggire dai tuoi simili armati che vogliono uccidermi senza un perché. È il mio lavoro, questa fuga, la ragione della mia esistenza, insieme al dare vita a una discendenza che non abbandoni il nostro territorio.
Però a te mi sono avvicinato, in un momento che non so spiegare.
Ricordi quei giorni?
C’era tanta neve e ammetto che avevo fame. Dovevo aspettare la primavera, ma cominciavo a temere che non l’avrei vista. Erano molti e molti giorni che risuonavano i fucili dei cacciatori, per salvarmi andavo sempre più verso le vette, dove la neve era tanta e l’erba quasi assente. Avevo fame ed ero stanco. Perciò cercavo un rifugio e del cibo, e quando ho capito che ormai non potevo più farcela ho cominciato a scendere verso valle. Sempre all’erta, come è il destino delle prede, non sapendo se avrei visto il domani o se una pallottola mi avrebbe spaccato il cuore in qualsiasi istante.
Mi sono avvicinato alla tua abitazione perché sentivo profumo di fieno. Veniva dalla tua stalla. Ho visto la porta aperta e non ho resistito, sono entrato e ho mangiato. Poi sono scappato. E poi sono tornato.
Tu mi hai visto, ho letto sorpresa nei tuoi occhi, ma non malvagità. E una volta ho trovato delle mele sul tuo davanzale. Non ho avuto dubbi che fossero per me. Le ho mangiate; il giorno dopo ce n’erano delle altre.
E così via, giorno dopo giorno. Fino a che non ho avuto più paura.
Mi manca il fiato. Stendo le mie lunghe zampe qui, vicino alla stalla che tante volte ho raggiunto in cerca di te e delle tue coccole.
Un po’ per volta a nostra amicizia è cresciuta. Io ho cominciato a fidarmi dell’uomo, l’uomo ha imparato a rispettarmi. Scendevo dal bosco e venivo in libertà nel tuo paese e grazie a te nessuno, dopo la prima meraviglia, mi ha mai molestato. Ho sentito invece tanto amore, tanta dolcezza. Che si è poi tradotta in carezze e… una crema buonissima che mi davi da leccare, che sapeva di bosco, cioccolato e nocciola, e di cui mi sono scoperto golosissimo. Come la chiamavi? Ah sì, Nutella!
A noi creature la vita ha dato modo di percepire il momento in cui la luce si spegnerà, così possiamo scegliere quello che sarà il nostro ultimo rifugio.
Lo so che non mi manca molto. A noi creature la vita ha dato modo di percepire il momento in cui la luce si spegnerà, così possiamo scegliere quello che sarà il nostro ultimo rifugio. Di solito in solitaria. Ma io ora sono qui.
Mi hai visto, sei venuto a carezzarmi ancora, io non ce l’ho fatta ad alzarmi. Credo che tu abbia capito, se quel luccichio nei tuoi occhi è quello che penso.
Mi dispiace andarmene ora che ho trovato tutto questo calore, tutto questo cibo e questa crema fantastica. Ma ci sono cose da cui non si può fuggire, nemmeno con le gambe più lunghe del mondo, nemmeno con il cuore più impavido.
Vorrei tanto ringraziarti di quello che sei stato per me, dell’aiuto che mi hai dato, ma non so come fare.
Un giorno dalle finestre di una delle case del paese è uscita una musica dolcissima accompagnata da parole che ho compreso bene, perché parlava di un cervo come me. Un cervo che fa dono di ogni parte del suo corpo moribondo al nobile signore che andava a caccia. Le orecchie per bere, l’occhio per specchio, il fegato per dare coraggio e così via, in modo che “il corpo del tuo vecchio servo sette volte darà frutto, sette volte fiorirà”.
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Ecco, io vorrei farti dono di me come il cervo di quella musica, è un pensiero molto suggestivo, ma non so, mi sembra che tu non abbia bisogno di farmi a pezzi, che magari ci staresti male. E allora ti lascio il mio ricordo: il ricordo del calore della mia pelliccia, ora che è invece fredda per la morte che si avvicina; il ricordo delle mie lunghe corna, che un giorno hai dipinto dei colori della tua bandiera; il ricordo della mia lingua golosa che leccava la crema e le tue mani; il ricordo del mio naso attraverso le tue finestre.
Fa di me quello che vuoi, ma se puoi seppelliscimi nel bosco, sulla montagna e tieni per te solo il ricordo, non posso darti altro. Ti chiedo solo di fare sapere anche agli altri tuoi simili che cervi e uomini possono amarsi, come ci siamo amati io e te, e che i fucili sono una cosa cattiva, del tutto inutile.
Ecco, ora fa tanto freddo, chiudo gli occhi. Domani mi troverai qui senza un soffio di vita. E non servirà la crema a riportarmi da te. Ma tu, se puoi, mettimene lo stesso un po’ sul muso, affinché il suo sapore e il tuo odore mi accompagnino nel mio viaggio.
Liberamente tratto dalla storia vera di Attila, il cervo delle Dolomiti amico dell’uomo, morto alla fine di gennaio 2013.
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