Ciottolato, ovetti e hashtags
Vi è mai capitato di dare un nome ai periodi della vostra vita?
Insomma, mi chiedo come dovrei catalogare questa pratica, se come una cosa comune o come un’abitudine che devo tenere per me… mi interrogo davvero, perché a volte ho l’impressione di prendere per ordinari dei rituali quotidiani che poi scopro, per caso, essere soltanto miei.
Un po’ come quando, da piccola, avevo il vizio di camminare esclusivamente sopra le tessere rosa dei pavimenti in ciottolato di marmo, saltando di casella in casella ed evitando quelle bianche, senza che i miei si accorgessero dei miei movimenti calcolati. Non volevo farmi scoprire, ma ero certa che anche tutte le altre persone che avevo intorno si stessero muovendo secondo le mie regole. Magari sceglievano un altro colore, ma tutti stavano da una parte o dall’altra, in un immaginario gioco tra squadre: bianco o rosa.
Poi crollano i miti, così. Avrò avuto sette, otto anni, ed eravamo nel piazzale davanti alla chiesa del mio paese, io e uno dei miei cugini più grandi, una mattina di aria fresca, calzini col merletto alla caviglia e occhialetti da sole, giacca della tuta legata in vita e alla zia una continua e indecisa richiesta di merenda, oscillante tra la cioccolata calda e il gelato alla nocciola: la primavera è così, ti mette davanti a scelte che per un bambino solo importanti, passi quasi decisivi, ma senza prima verificare che tu sia pronto, che il momento sia propizio…
E come neanche adesso saprei dire quale dei due dolci preferisco, e rinnegare una delle due leccornie in favore dell’altra, neppure in quel momento la presa di posizione, l’ammissione di quella piccola verità fu facile: mio cugino amava camminare sopra al bordo di congiunzione delle tessere del pavimento. Ebbene sì, il gioco di ruoli di cui sino ad allora ero stata infaticabile paladina altro non era che una mia invenzione! Non potevo più essere il capitano della squadra rosa, la “Pifferaia Magica” dei percorsi tra mattonelle.
Che smacco doverlo accettare! A mio cugino non gliene fregava un fico secco del colore, della dimensione, della distanza delle piastre, a lui bastava essere guidato dalle linee frastagliate dei contorni, non seguiva le mie attenzioni ai tasselli rosa. No, che stessi zitta e non mettessi piede, più che parola, sugli incroci dei bordi. Mi ricordo perfettamente la sensazione di sconfitta e di assoluta inconciliabilità fra teorie personali così limpide, inequivocabili e insindacabili.
Nella mia testa mi figuro ancora il sabato dopo, il giorno da sempre in casa mia dedicato alla spesa al supermercato, quando, per la delusione di esser stata tradita nelle mie credenze più ferree, ho lasciato perdere la scelta dell’Ovetto Kinder. Nei miei più sicuri ricordi di bambina, la strategia del Kinder: io prendevo sempre il quarto da sinistra nella terzultima fila, convinta com’ero che tutti i bambini avessero avuto un motivo per prendere un ovetto piuttosto che un altro, fosse la carta più distesa o brillante, la scritta più leggibile, la collocazione più semplice (agevole?) da raggiungere. E i disegni che i posti vuoti andavano componendo nell’espositore dipendevano dalle diverse tempistiche, dagli orari d’arrivo al supermercato, diversi ogni settimana. Giuro che stupisce anche me, dichiarare che questi erano i miei ragionamenti da bambina delle elementari.
Insomma, agivo con una disarmante razionalità infantile, ma a posteriori ricordo che mi sentivo personaggio di un gioco a cui tutti stavano prendendo parte, anch’io con le mie scelte, anch’io con le mie abitudini. Però non ho mai osato curiosare (indagare, sondare?) sulle motivazioni altrui per cui scegliere i Kinder, neanche da grande. Sapere che gli altri bambini prendevano il proprio solo per caso avrebbe fatto crollare il mio castello di strategie, la mia coorte di astuzie, i miei borghi di tattiche – e non sarei mai stata pronta ad accettarlo… Mi rivedo come un’embrionale maghetta della logica, senza arte né parte, ma che negli anni ha però cambiato tattiche ed astuzie, passatempi, e perso qualche trucchetto per strada…
Sempre più spesso ora, anche se più cresciuta, mi ritrovo ancora a cercare il nesso tra situazioni e casi strani che affollano la mia vita.. e, con la stessa frequenza, mi capita di esternarmi dal contesto, di guardare il mio tempo e gli eventi scorrere davanti, notando come essi si rincorrano; le stesse frasi, uguali pensieri, deja-vu emozionali e casuali similarità.
Come nelle scene dei film, un’altra Amélie un po’ sognatrice e un po’ sceneggiatrice, con sguardo obliquo e vagante, mentre le macchine le corrono davanti, ed io al semaforo con le sporte che allungano le braccia e l’immaginazione che allunga la visuale. Così nomino il tempo. Un passatempo alternativo, che si svolge nella mia mente. Metto hashtag alle emozioni, etichetto in modo selettivo vagonate di attimi, cerco di riassumere aneddoti affini con le parole suggerite dal brivido connesso agli eventi. Chiamo ‘corsa’ quei giorni in cui le lancette dell’orologio e le scadenze mi remano contro, ‘serenità’ quel tranquillo appollaiarsi in terrazza e naufragare nelle emozioni, ‘opportunità’ l’abbracciare nuovi progetti con la fiducia di riuscire, sfide inaspettate ma positive, ‘fiducia’ il ritrovare un compagno di vita che accompagni le nostre scelte in un determinato periodo, ‘noia’ gli elettrocardiogrammi piatti di serate a risicare il sonno precoce, ‘adrenalina’ il cuore che salta. E questi tempi possono essere un paio di mesi, a volte qualche giorno soltanto, un anno – ma è come se ci fossero delle stelle, a prescindere dall’oroscopo e dall’astrologia biascicata, che si disputano a carte le mie azioni e che coordinano ciò che agisce con me, per me.
Forse dovei cominciare a scrivere in serie queste definizioni, ad analizzare la matematicità degli episodi, e se li trattassi come capitoli forse avrei una linea guida per ricreare la mia storia, forse capirei di più sulla ciclicità delle esperienze, forse scoprirei il piacere di non farmi trovare sempre impreparata di fronte all’avvenire. Forse, dico, perché intanto il semaforo è diventato verde e giallo di nuovo. Ed io questa parte della mia vita la chiamo ‘ripresa’.