Kyrgyzstan, sulla M41 verso il Pamir, tra passi ed altopiani sconfinati
Il benvenuto in Kyrgyzstan è un incomprensibile litigio tra tassisti per giocarsi l’accompagnamento dal piccolo centro di confine del lato kyrgyz per pochi som. La realtà superando quel cancello cambia d’improvviso: una serie di appartamenti di stampo sovietico si ergono tra immensi viali dissestati; palazzi ancora abitati ma terribilmente malconci. I tubi di gas sono costruiti all’aperto, passando vicino a finestre di piccole case edificate a ridosso della strada senza nessuna minima preoccupazione per la sicurezza personale. Il retaggio sovietico si fa sentire di più a queste latitudini della ex CCCP. Se in Uzbekistan si è deciso di eliminare quasi del tutto l’uso del cirillico, in kyrgyzstan si è mantenuto ancora in vita come parte della cultura locale; se in Uzbekistan molte delle simbologia dell’era sovietica sono state eliminate (compreso il colore rosso degli edifici secondo ordini del presidente) in Kyrgyzstan vi sono ancora statue, monumenti e simbologie di quell’epoca non troppo lontana.
Dopo alcuni minuti di taxi arrivo ad Osh, una città che da subito colpisce per la sua frenesia, per il suo traffico impazzito e per le condizioni di vita dei suoi abitanti che non sembrano delle migliori. Cerco un famoso ostello che si trova proprio in un vecchio raggruppamenti di case popolari sovietiche a ridosso della via centrale della città, trovandolo non prima di avere incontrato alcuni problemi a riconoscere la via giusta date le somiglianze dei palazzi di antichi quartieri dormitorio.
La cosa che colpisce da subito è l’impatto con la popolazione locale che, seppur abituata più che in altre zone del kyrgyzstan alla presenza di stranieri, si dimostra piacevolmente attratta dalla tua presenza con quel tipico atteggiamento freddo delle genti di montagna.
La prima passeggiata per la città mi coinvolge emotivamente mai quanto prima in questo viaggio. A differenza della cupa Tashkent e del suo interessante mercato, il bazar centrale di Osh si differenzia per la sua vivacità con prodotti d’ogni genere e venditori dall’aspetto austero ed inflessibile..
Cammino tranquillo per il bazar, di tanto in tanto si avvicina per pura curiosità qualche bottegaio che spesso richiede il motivo della permanenza in una città per essi stessi dimenticata dal mondo e dall’umanità intera. M’ inoltro nelle zone poco al di fuori del bazar, nei quartieri piu’ popolari a ridosso del fiume che attraversa la città e vengo sempre accolto da un’aria distesa e da una certa quiete. Le case si fanno piu’ basse e l’architettura diviene genuinamente tradizionale, mentre l’odore dei meravigliosi tappeti prodotti dai locali inebria l’aria d’antichità. In lontananza si notano alcune strane cime di montagne dalle forme piu’ variegate.Rientro verso la guest house e Tra il canto solenne del Muezzin ed un cay bevuto con il padrone , mi addormento pensando alla lunga tratta sulla strada del Pamir verso il confine con la Cina che mi attende il giorno seguente.
Mi Sveglio la mattina presto grazie alla melodia dell’Adhan, consumo una colazione veloce a base di cay e pezzi di pane e m’incammino con Filippo verso la vecchia stazione degli autobus della città, nella quale si possono trovare minibus per svariate direzioni in tutto il Kyrgyzstan. Troviamo ciò che fa a nostro comodo in breve tempo ed attendiamo che il mezzo parta per la destinazione scritta sul vetro. Dopo un’attesa di quasi due ore e qualche parola scambiata con altri presenti nella giungla della vecchia stazione, l’autista ci spiega che il minibus sarebbe partito tre ore più tardi; decidiamo così di tentare la sorta contrattando un prezzo ragionevole con un taxi privato riuscendo ad abbassare la quota di quasi 100 euro, pur rimanendo sempre intorno a cifre abbastanza proibitive per gli standard dell’Asia centrale. La mattinata ci sta sfuggendo di mano, le contrattazioni proseguono lente tra un cambio d’opinione improvviso ed un prezzo in lenta discesa. Contrattare in queste zone del mondo è una delle più grandi passioni che mi posso riservare di avere in un mondo nel quale i prezzi sono fissati dalle condizioni generali del mercato; lanciare cifre assurde, osservare il sorriso dell’autista ed i continui tentativi di arrivare ad un prezzo decente per entrambi i contrattatori, riesce a regalare al viaggiatore uno spicchio di sapore di ciò che fu la via della seta. Dopo almeno un’ora d’incomprensioni varie, si riesce a capire che la nostra opzione tende alla ricerca d’altri compagni di viaggio per abbassare il prezzo, arrivando ad una cifra accettabile; siamo quindi indirizzati, come nella più usuale delle situazioni centroasiatiche, verso un altro piazzale nel quale contratteremo un posto in una sorta di Marshrutka per poco piu’ di tre euro in direzione Sary Tash.
Sary Tash, un piccolo villaggio non molto distante dal confine con il Tajikistan e da quello con la Cina, in cerca di alti picchi di montagna, villaggi sperduti e yurte (tipiche tende utilizzate dai nomadi dell’Asia centrale). Il viaggio nel taxi collettivo verso Sary Tash prosegue tranquillo a parte una pausa di mezz’ora a causa di una ruota forata nel bel mezzo di un altopiano sterminato costernato da grandi canyon dai colori strepitosi.
Dentro la Marshrutka l’atmosfera è estremamente rilassata; siamo in compagnia di una signora anziana kyrgyz vestita con uno splendido abito tradizionale e di due ragazze locali che cercano di parlare un mix tra russo, inglese e spagnolo, riuscendo in qualche modo a farsi capire.
Il panorama attorno a noi ora dopo ora va cambiando; si passa da un brullo altopiano alla montagna con le sue cime innevate, transitando in piccoli e splendidi villaggi, incrociando pastori, mandrie di mucche e pecore guidate da bambini e da giovani ragazzi a cavallo. Di tanto in tanto tra un villaggio e l’atro si scorgono piccole yurte ed alcuni nomadi seduti su immense vallate, atti a rilassarsi in attesa del proprio gregge.
Le alture cominciano a farsi più alte e la strada più stretta ma ancora splendidamente percorribile, stiamo salendo di parecchi metri ed il mal di montagna inizia a sentirsi un poco. I nevai principiano ad essere vere e proprie distese di neve ed il freddo esordisce con i suoi pizzichi sulla pelle che gelano le ossa. Siamo a più di 3700 m.s.l. ed intorno a noi solo nebbia, interrotta di tanto intanto da picchi di montagna altissimi che si scagliano verso il cielo con la loro maestosità.
Superato il passo, ci troviamo di fronte ad un piccolo villaggio immerso in un panorama indescrivibile. Le cime in lontananza abbracciano nubi e si scagliano verso l’alto come immensi giganti silenziosi, il gelido vento soffia sempre piu’ forte e ci blocca le ossa; quell’insistente soffio che dalle cime del Pamir scende verso valle sibilando tra i muri delle case.
Ci incamminiamo lentamente verso il piccolo villaggio tra case di terracotta, asini, capre e giovani pastori con i propri greggi. I sorrisi abbracciano il nostro camminare insicuro ed infreddolito; dopo qualche saluto ed alcuni timidi tentativi di approccio siamo invitati da un signore a seguirlo verso la propria dimora per un pasto ed un onnipresente cay.
Entriamo nella casa e siamo accolti da una giovane donna in abiti tradizionali che ci fa cenno di seguirla in una stanza poco distante dall’ingresso. La sala è una sorta di locale per gli ospiti ornata da tappeti e cuscini di svariati colori, con al centro una specie di enorme tovaglia che sarà riempita a breve da dolci dal sapore particolarissimo ed un formaggio dal gusto deciso, probabilmente di capra.
Appena presentatoci il pasto ed i dolcetti siamo lasciati soli per svariato tempo in compagnia degli uomini della casa, come la tradizione islamica piu’ conservatrice prescrive in un paesino rurale, lasciandoci come sempre con un poco d’ imbarazzo.
L’uomo di casa, il padre di famiglia o come ci è stato detto ” il capofamiglia “, ci presenta un piatto tipico della zona offrendocelo come un regalo di benvenuto: una zuppa di verdura fresca, cotta su di una particolare brace accompagnata da un po’ di formaggio di pecora e latte fatto in casa, non pastorizzato.
L’atmosfera ha il sapore di tradizione ed antichità, fornendoci un quadretto di vita rurale delle montagne kyrgyz difficile da respirare altrove. Dopo qualche sguardo di curiosità dello stesso padrone di casa e delle genti del paese, si cominciano a scoprire timidi saluti dei bambini, piccoli sorrisi dall’aria così genuinamente cordiale da farci scordare il freddo pungente. La naturalezza del villaggio ci avvolge con il suo semplice fascino fino a travolgere il nostro spirito di forti emozioni per ogni minima banalità quotidiana osservata.
Gli alieni forestieri che ad ora si aggirano tranquillamente per il paese sono inizialmente una strana sorpresa, coloro che da queste parti non si vedono così spesso. E’ bastato un cenno di una mano, uno storpiato “salam aleykum” ed una forte stretta di mano ad accogliere lentamente i due forestieri come antichi mercanti sulla via per la Cina in cerca di tesori e sete preziose da compare o da scambiare.
Come per ogni zona visitata fino a quel momento il tesoro dei due rimane la gente, la vita dei locali, i costumi e le usanze di ogni zona attraversata, lontana dalle comodità occidentali con le quali tutti siamo abituati a convivere con il passare del tempo.
Il sapore di formaggio che esce da ogni casa ci inonda con la sua forte fragranza, il suono dei campanacci delle mucche accompagna il nostro camminare lento verso gli immensi “prati” sconfinati in prossimità di cime sempre più alte e dall’aspetto che quasi ci intimorisce per la loro immensità. Picchi di montagna che personalmente ho sempre sognato di vedere dal vivo, osservandoli solamente attraverso lo schermo piatto di un PC, grazie ad una connessione ad internet.
Il panorama è mozzafiato proseguendo a piedi sulla M 41: L’altissima cresta del Peak Lenin (7134 M) spicca solenne tra altre altissime montagne, regalando agli occhi uno dei più begli spettacoli che un essere umano può osservare. La catena del Pamir vista dai grandi prati tra Sary Tash e Sary Moghul si estende in lungo per svariati chilometri davanti ai nostri sguardi sempre piu’ increduli.
L’emozione provata è comunque indescrivibile, dopo chilometri e chilometri tra steppe, deserti e treni a lunga percorrenza, lasciar andare lo sguardo tra una cima e l’altra, tra l’Irkestam ed il Peak Lenin, camminando sulla M 41, è una grande soddisfazione che mi lascia cadere qualche lacrima nel silenzio dei 3700 metri
Non riesco più a staccare gli occhi da quelle cime, non ne voglio perdere neanche una, mi lascio perdere tra minimi dettagli di ogni picco attendendo che qualche nuvola se ne vada lontano per godere completamente dello spettacolo. Dopo avere camminato per un bel po’ di chilometri, decidiamo inconsciamente di dirigerci verso il Peak Lenin, attratti dal suo indimenticabile richiamo accompagnato dal riecheggiare del vento del Pamir. Proseguiamo salendo d’altitudine colpiti dalla bellezza del panorama circostante e dal gelo sempre più duro da affrontare, incuranti del pericolo per la salute. Dopo qualche ora cominciamo a sentire i primi acciacchi del mal di montagna, stiamo salendo sempre più e la pressione comincia a diminuire così come la presenza di ossigeno. Ci stiamo dirigendo verso una base militare tajika abbandonata e sentiamo un’insopportabile fatica che si fa sempre più pressante con l’andare dei passi. Il mal di testa comincia a farsi più pungente penetrando dentro lo spirito avventuriero. Dopo qualche minuto mi sento abbandonare le gambe, sto per svenire lentamente a causa del mal di montagna che ormai sfida la mia voglia di avventurarmi. Sono quindi costretto a tornare indietro con Filippo attraverso un immenso altopiano montuoso di un vecchio confine che adesso si è spostato di svariati kilometri. Andando avanti ci accorgiamo di esserci trovati in un ex campo minato ad oggi abbandonato da tutti, con il rischio che qualche mina sia ancora inesplosa. Mi sono ricordato un po’ troppo tardi d’avere letto su di alcune guide di prestare attenzione a simili zone di confine. Seguiamo quindi il percorso di alcuni escrementi lasciati dalle mucche al pascolo poco più distanti, tranquillizzandoci solo all’arrivo della ben ritrovata M 41.
Rientrando in paese siamo accolti da una semplice famiglia di pastori in una casetta tradizionale, poco fuori da Sary Tash. L’accoglienza è quella di un pastore di montagna che gentilmente ci offre dello squisito cay accompagnato da una strana ricotta e del caldissimo naan (pane) dall’ottimo sapore. Siamo fatti entrare anche qua in una stanza non troppo grande sedendoci in cerchio con i maschi della famiglia, tentando di comunicare tramite un russo sbilenco e molta gestualità.E’ incredibile quanto queste genti possano riuscire a farti respirare la loro ospitalità mediante una sola tazza di tè, qualche sorriso ed alcune domande di circostanza che, con il passare dei minuti, divengono storie da raccontarsi ed esperienze da condividere.
Con nostra grande sorpresa, dopo qualche minuto, una ragazza sorridente e poco più piccola di noi entra nella stanza e si siede in compagnia dei maschi. E’ la figlia del pastore: entra e fa da traduttrice al padre, riuscendo a farsi capire con poche parole in inglese e con qualche timido sorriso.La situazione è a dir poco stupenda per il particolare clima di scambio e di curiosità reciproca che aleggia nella casa. Dopo un’ora passata in compagnia della genuinità di alcuni locali, decidiamo che si è fatta ora di ritornare alla nostra dimora familiare.
Il tramonto cala sul paesino sperduto, il vento comincia a calare d’intensità e l’Adhan di un villaggio vicino riecheggia tra le cime aggirandosi misterioso tra le piccole case di Sary Tash.
Il freddo gelido cala sul paese, le cime sono ricoperte da nuvole ed il silenzio la fa da padrone. Il cielo è ricoperto dal bianco luminoso delle stelle e la luna piena si sveglia dal suo letargo diurno presentandosi maestosa dietro ai picchi di montagna.Esco dalla casa e mi reco nel cortile dopo una squisita cena a base di Naan e zuppa di carne di montone. Il paesaggio assume le sembianze di un villaggio surreale: di tanto in tanto un piccolo lume riempie il buio con il suo calore, mentre in lontananza si odono i belati dei greggi chiusi nei recinti. Tra il muggito di una mucca, il ragliare di un asino e la fredda voce del vento, sento cantare delle persone in una casa vicina, come un anonimo seguace mi lascio trascinare dalla poesia di una melodia sconosciuta.
Dopo avere condiviso con Filippo alcune idee rispetto a questa splendida avventura verso il confine con la Cina nel bel mezzo delle montagne kyrgyz, mi appisolo dentro ad una stanza accogliente e calda, cullato da coperte di lana naturale e dal fruscio di un debolissimo vento.
La sveglia è nuovamente l’eco dell’Adhan, il ragliare di un asino ed il muggito di una mucca fermatasi proprio sotto la casa; non esiste migliore sveglia che quella accompagnata dal fresco clima mattutino di montagna. Mi alzo dal letto e mi dirigo verso la finestra per ritrovare un po’ di luce ed il panorama che si staglia davanti ai miei occhi, mi lascia cadere la prima vera lacrima d’emozione del viaggio. Davanti a me neanche una nuvola, il sole ancora basso dell’alba riempie di rosso alcune cime invisibili il giorno precedente. Passano i minuti e la visuale si fa ancora più splendida, l’immensità di una parte della catena del Pamir si estende in tutta la sua bellezza con le sue cime tinte di bianco, in un raggio di visuale ampissimo. Sono a bocca aperta, non ho parole se non sospiri, non ho movimenti se non quegli oculari nello spostarmi tra una cima e l’altra, non ho pensieri se non quelli diretti a tutto questo splendore.
Se il giorno prima la visuale era ugualmente fantastica nonostante la nebbia, la mattina il colpo d’occhio regalatomi come buongiorno è sublime.
Dopo essere rimasti immobili per più di mezzora a godere del mondo circostante senza muover bocca ed usar parola, decidiamo di incamminarci verso la via del ritorno chiedendo un passaggio per Osh ai passanti.
La via da Osh verso l’Irkeshtam passando per il piccolo villaggio di Sary Tash è uno dei corridoi meno controllati per il passaggio e lo scambio d’oppio dell’asia centrale, ogni macchina che arriva dal confine può essere ricca di sorprese, così la fantasia nel pensare di essere in una via di passaggio anticamente conosciuta per la sua indeterminatezza ci incuriosisce.
Troviamo una macchina che per meno di due euro ci porta fino ad Osh e dopo un giro del paese per cercare altre persone da portare nella città più a valle, ci avviamo verso la via del ritorno. La macchina è piena ed in sovraccarico, siamo sei persone e proseguiamo ad una velocità molto ridotta per l’impossibilità a portare tanto peso.
Saliamo verso il primo passo e la strada comincia a farsi paurosa. Durante la notte ha nevicato, siamo in quota e la strada è un po’ ghiacciata. L’autista non sembra esserne interessato minimamente e la guida spericolata comincia seriamente a preoccuparci. Tra curve prese nel modo più incomprensibile che un uomo possa immaginare e tratti di rettilineo percorsi superando camion, mandrie di mucche e bambini pastore, cerchiamo d’esser fiduciosi nell’abitudine di queste genti a guidare su queste strade tortuose e d’altissima montagna. Posso comunque dire che la M 41 è una strada che nella parte kyrgyz è molto percorribile da ogni macchina, con pochi tratti non asfaltati ed un panorama che riesce a farti dimenticare la pazzia d’ogni autista locale.
Arriviamo ad Osh ad un orario decente e dopo avere salutato con una certa gioia l’enigmaticità del passaggio preso a Sary tash, ci dirigiamo in fretta verso l’ostello per recuperare i bagagli e partire in direzione opposta tentando di rientrare a Tashkent, in Uzbekistan per la sera. Arrivederci Kyrgyztsan, le tue genti, il profumo della montagna, il gelido vento del Pamir ed i suoni dei nomadi pastori mi accompagneranno con il loro ricordo perenne per tutto l’andare del viaggio, augurandomi con gentili pensieri un buon proseguimento di viaggio
(qui la tappa precedente del viaggio: CLICCA QUI)