Rete
Leggerezza. Mi ispirano leggerezza le bollicine che salgono, chi veloce veloce, chi lenta lenta, chi in coppia, chi in fila interminabile e rigenerante. Sorseggiavamo quella birra in cucina, non dicendo nulla, forse per la stanchezza del trasloco che stava terminando, forse per la nostalgia. Boh. L’ultima musica aveva già inondato la stanza e noi tre, in silenzio, ascoltavamo. Poi sarebbe tornata ad essere silenziosa, la casa. Senza quella musica che era stata assente per quasi due mesi, i primi, senza il supporto di internet ché il tecnico non si faceva vedere e quando si faceva vivo non c’eravamo noi. Che poi si scopre che internet serve veramente, quando non c’è. Quando c’è, si rischia l’inflazionamento.
C’è una mia conoscente che sta tutto il giorno a scrollare la bacheca di Facebook nell’attesa di una notizia sconvolgente e, nel frattempo, si limita a commentare stati insignificanti. Stati. Qual è il tuo stato attuale. E il tuo status? Ma, soprattutto, che ti frega dello stato di uno che non conosci? E quanti amici hai su Facebook? Amici. Datemi una definizione di amico e alzi la mano chi di voi non gli dà come seconda valenza il rapporto che si ha con un contatto, più o meno conosciuto, su Facebook. Gli amici non possono essere solo contatti, istantanei, magari ripetitivi. I miei amici sono pochi. Cerco di non trascurarli mai e di esserci sempre, al bisogno. Poi, chissà se ci riesco, chissà quanto riesco a comportarmi bene.
Erica sarebbe partita per l’America di lì a qualche giorno. Nell’ultimo anno aveva collaborato con un dottore di Cupertino e ora lui la voleva affiancare ad un progetto negli Stati Uniti. Un’altra amica che partiva, come era già partita Chiara, come era già partito Theo. Io rimanevo, impigliato in quella rete di rapporti che tenevo lì, arroccato sulla cima di Monte Ricordo a scrutare l’orizzonte ma non riuscendo a distogliere lo sguardo al passato.
“Ma tanto ci sentiamo su Skype”. Ero proprio contento per lei.
“Non potrei venire lì, io” le dissi “Avrei troppa paura a fare le lunghe camminate di notte che faccio qui”. Camminare era l’unica cosa che mi districava dalla rete, virtuale, cibernetica, abitudinaria. Trascorrevo ore alla settimana per andare nel centro padovano, spento e vuoto già dalle undici di sera, a differenza di qualsiasi città del sud che rimane aperta 24 ore su 24, dove i bar non chiudono finché non se ne vanno gli ultimi avventori. Chissà in America come poteva essere. In città, più frequentemente che in Italia intrappolate nella rete dell’invisibilità. Ombre camminanti. Chissà se anche Erica sarebbe diventata un poco amorfa. “Ascoltate” feci io, improvvisato e calzato da un buco nello stomaco, manco m’avesse sparato qualcuno “nella mia casa nuova non ho nulla in frigo. Perché non ci facciamo una pasta qui e poi chiudiamo baracca e burattini?”
“Mah, potrebbe essere una buona idea. Io ho delle uova e del guanciale appena comprati, la pasta c’è e se il gas non ce l’han ancora tolto, una carbonara ci sta tutta”.
Una sorta di ultima cena, quella, e potenzialmente letale: in tre ci pappammo una carbonara con sette uova!
(…)
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