La vecchiaia con gli occhi di Giacomelli
Parliamo d’arte, che amo in tutte le sue forme.
Da qualche anno sono appassionata anche di fotografia. Tempo fa, ero ancora una collezionista alle prime armi, un amico gallerista mi mostrò qualche foto del grande Mario Giacomelli, il maestro non era ancora scomparso ed io vivo a pochi chilometri dalla sua città, Senigallia. Mi mise sotto il naso qualcuna delle sue opere, ognuna appartenente ad un ciclo: La Buona Terra, Scanno, Presa di coscienza sulla natura, Io non ho mani che accarezzino il volto, A Silvia, altri ancora, e, dulcis in fundo, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, stesso titolo della poesia di Pavese. Di ritorno a casa non potevo smettere di pensare a quello che avevo visto.
il mio ricordo si soffermava, a lungo, sui volti rugosi, emaciati, tremolanti, sui corpi malati, sui moribondi nel letto
Infine il mio ricordo si soffermava, a lungo, sui volti rugosi, emaciati, tremolanti, sui corpi malati, sui moribondi nel letto, sullo sfacelo della carne e della materia umana crudamente ritratta nella vecchiaia. Quella narrata da Giacomelli, attinta dalla sua esperienza vissuta all’interno dell’ospizio di Senigallia. In più di un’intervista il maestro dirà che il ciclo di opere a cui è rimasto maggiormente legato e che prediligeva, creatura nata dalla sofferenza e per questo più amata, è quello dell’ospizio, fotografie che inserirà poi nella raccolta intitolata appunto Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Io possiedo alcune opere di Giacomelli. Due sono di questo ciclo, di cui una pubblicata che ha fatto il giro del mondo. Ve le mostro. Il ritratto di una donna anziana acconciata per la foto come fosse una giovane ragazza, vezzosa nella posa e nel suo vestire, ma con lo sguardo penetrante degli occhi che tradisce la rassegnazione per una condizione ormai mutata. L’altra, ugualmente di grande impatto, coglie l’immagine di una donna anziana nuda, con le mammelle cascanti, la pelle flaccida e tremula, la bocca ghignosa, una smorfia di dolore. Un camice bianco in mezzo (un medico con tutta probabilità) ed un’altra donna, carica d’anni, di profilo, con lo scialletto di lana sulle spalle, la bocca che pare sdentata.
Quando guardo queste due opere, girando per casa, mi capita di domandarmi, ogni volta: Cos’è la bellezza? Ove la si può trovare? Possono soggetti che non rispondono a stereotipi convenzionali di bellezza ritenersi belli? Ebbene sì, le persone di questa foto sono belle. Belle nell’attimo in cui è stata colto quel determinato istante, particolare, della loro esistenza.
La vecchiaia e il decadimento mi danno fastidio. I danni del tempo sono irreparabili ed impietosi. Inconsapevolmente o consapevolmente rifuggiamo dal pensiero della vecchiaia. Ma l’umanità che scorgo negli occhi dei “vecchi” dell’ospizio, nei gesti che s’intravedono o che posso immaginare, mi indicano una intimità spettacolare. Potrebbe essere la mia, la vostra, l’intimità di qualsiasi altro, sebbene ancora lontano da quella condizione. Giacomelli mi fa partecipare al loro privato.
E io gliene sono grata.
Quando passo davanti a queste due fotografie mi sorprendo a fermarmi posando a lungo lo sguardo, a domandarmi chi siano state queste donne, chi abbiano amato e da chi siano state amate, come abbiano vissuto, in poche parole come sia stata la loro vita. Mi domando se in quell’ospizio si saranno sentite sole e abbandonate. Se avranno avuto momenti felici, se la loro morte sia stata serena.
E allora mi viene spontaneo passare una mano sul vetro a protezione, per sfiorare con una carezza quei visi, quei corpi, le mani nodose e deformate.
La fotografia fissa il tempo per l’eternità. Ha il potere di fermarlo.