Falesie D’Africa parte 1°
E’ ancora notte… ma il cielo si sta già squarciando e aprendo in due fronti opposti di nubi, lasciando uno spicchio di luce solare che filtra e si proietta distratto sulla parete di roccia, levatasi massiccia dietro il tetto della casa di fango dove mi sono coccolato nel sonno fino a qualche istante fa.
I colori di quest’alba morta e allo stesso tempo così gravida di vita si inseguono e rincorrono lungo tutto il canyon primordiale che ricorda ora un fondale da teatro greco, dove le ombre naturali della terra e del cielo si accoppiano come animali d’argilla e soffiano leggere sulla neonata mattina d’Africa.
Siamo appena sotto l’imponente Falesia di Bandiagara, una delle zone più inaccessibili e aspre del Mali (Africa Sub-Sahariana). Un deserto roccioso di dune e savana che trasporta l’animo di chiunque vi si addentri verso paesaggi lunari ed ancestrali. Oltre alle meraviglie naturali e agli scenari da groppo in gola che questi luoghi hanno il potere di evocare, il motivo principale della mia visita sono gli uomini, più neri del buio stesso, che abitano la regione conoscendone e prevedendone ogni insidia o vantaggio. Mi riferisco ai Dogon, popolo molto studiato per le loro straordinarie conoscenze di astronomia e per l’intricata cosmogonia mitologica che ha appassionato diversi studiosi per anni. Uno di questi, l’antropologo francese Marcel Griaule, ha dedicato ai Dogon quasi la sua intera esperienza etnografica, catalogandone i miti e le usanze in un volume intitolato “Dio d’Acqua”. Ora, penso sia normale, per uno studente di antropologia al primo anno di Università, lasciarsi suggestionare da quanto riportato da Griaule al punto dal voler toccare di persona il racconto impresso sulle pagine compilate dall’illustre predecessore.
Il mio viaggio, o meglio trekking, per la Falesia è effettuato interamente a piedi, attraversando i villaggi Dogon che mano mano si delineano arroccati all’orizzonte, e facendo attenzione a rimanere con i piedi ben saldi sulla roccia del Canyon dalla quale il mio percorso si snoda sinuoso.
Con me, a guidarmi tra i pietrosi cunicoli e i baobab sfrondati, c’è Mamadou, la mia guida Dogon. Mamadou è un Dogon nato nella Falesia che, per migliorare la propria condizione, ha deciso di impiegarsi come guida per i turisti avidi di sentire il vento africano sulla propria pelle. La maggior parte dei visitatori si avventura per la Falesia munita di fuoristrada e portandosi al seguito stormi di portatori di borse, ma io ho chiesto a Mamadou di condurmi “in cammino” per la sua terra, così da rimanere in contatto continuo con la sua monumentale atmosfera perduta.io ho chiesto a Mamadou di condurmi “in cammino” per la sua terra, così da rimanere in contatto continuo con la sua monumentale atmosfera perduta.
Mentre ci arrampichiamo lungo il crinale della Falesia per poi, a seconda del caso e del giorno, ridiscendere verso i villaggi alla base o verso quelli appollaiati sulla cima, mi stupisco di come Mamadou riesca a saltare con disinvoltura di masso in masso e ad evitare crepacci larghi come buchi di meteora, aiutato solo da un paio di ciabatte infradito. Il sentiero che ci aspetta ogni giorno è il tipico sentiero per il quale noi occidentali ci attrezziamo con scarponi tecnici e lacci anti-slogature, quindi fa strano vedere un uomo, seppur indigeno del luogo, fare tutto ciò in infradito. La fatica estenuante del giorno è pienamente appagata dalle sfumature suggestive della sera quando, dopo la consueta cena a base di riso o cous cous (unico tipo di pasto da me consumato durante gli otto giorni nella Falesia), mi siedo a lume di candela nei pressi di una delle capanne, e mi perdo nella rassicurante melodia della voce di Mamadou. La mia guida mi racconta di storie e leggende della sua terra, di come i Dogon sono discesi dall’Egitto fino al Mali, e del loro sistema animista posto come base dell’Universo e origine delle loro avanzate conoscenze scientifiche in particolare riguardanti la stella Sirio, la stella prediletta dalla tribù dei Dogon.
I Dogon sapevano migliaia di anni prima dell’avvento del telescopio che la stella possedeva una nana bianca, non osservabile ad occhio nudo. Le rievocazioni mitologiche di Mamadou conciliano sempre il sonno che, cosa insolita per un giovane occidentale dai ritmi irregolari come me, mi comincia a stuzzicare già dalle 9 di sera, lasciando il posto ad una notte di sogni radianti che ancora oggi, a distanza di 4 anni, ricordo come se mi avessero visitato soltanto ieri.
Forse è vero che alcuni posti, per qualche strana alchimia, vibrano in maniera differente da quelli in cui siamo abituati ad abitare, e se li si ascolta con attenzione si possono captare diversi messaggi ed intuizioni, celati sotto la sabbia ruvida del sogno o nel mistero interrotto di questa terra di astronomi e spiritisti. Le palpebre già si chiudono piegate dal troppo peso, mentre la mia mente si rivolge eccitata verso il domani dove, in nuovo villaggio, conoscerò l’Ogon: un’importante capo spirituale, tramite tra il mondo degli uomini e quello degli spiriti. Da quanto si dice egli vive tutto solo in una grande capanna circolare, avendo come unica compagnia il grande serpente sacro ai Dogon di nome Lebè….
(continua…)