Breve storia di una generazione: anni novanta
Piccolo prologo: di tutta la buona musica dei primi novanta ho scelto questi due pezzi per introdurre la generazione che in quegli anni trascorse l’adolescenza. Il primo è “Lithium” dei Nirvana, un concentrato di bellissimi latrati provenienti dal vuoto e nel vuoto lanciati. Il secondo è Aphex Twin, dj introverso, autore di album di musica elettronica nella cameretta della sua abitazione. Se poi non vi va di ascoltare, peggio per voi. Ma tenete a mente queste righe. Se non capirete ora, capirete dopo. Andiamo.
Nascere in un’epoca di cambiamenti non è facile. Certo se la passava meglio chi visse Roma nel periodo della virtuosa Repubblica rispetto a chi dovette sfangarla nella corruttela del tardo impero. A qualcuno deve capitare, si dirà. E poi c’è ben di peggio, aggiungerà qualcuno. Ed è proprio così: c’è di peggio, perché essere stati adolescenti negli anni novanta (nel mondo occidentale, s’intende) non ha significato crescere tra Goti incendiari e Vandali stupranti, non ha significato Shoah e tante altre brutte cose. Ma l’adolescenza, si sa, è l’età dell’imprinting, delle impressioni che si portano dentro, dell’esteriore che viene interiorizzato ed elaborato a seconda della propria sensibilità. Uscire dall’infanzia significa esporsi, entrare in un periodo critico in cui l’occhio è famelico, la mente spugna, il cuore fragile. E allora se i nati negli anni del
Penso che nessuna generazione abbia passato tanto tempo in una cameretta
Quando ero un bambino avevo un atlante. C’erano nazioni dalle sigle incomprensibili, come URSS, altri che sembravano scioglilingua, come Cecoslovacchia, altri che si dividevano in due e vai a capire perché Est e Ovest non andavano d’accordo. Quelli dell’Ovest stanno meglio, mi dicevano. Ma presto staranno bene anche a Est. C’è un muro, mi spiegavano, un muro che li divide. Un muro? Di certo sapevo che a Ovest erano più bravi col pallone. Eccoli festeggiare con la Coppa del Mondo. Era il 1990. Avevo un orsacchiotto fabbricato da mani italiane nel distretto tessile di Prato, o forse quello di Carpi, o quello di Vicenza, non saprei. In Tv c’era un omino calvo con una macchia sulla fronte, uno dei più potenti uomini al mondo. Poi è scomparso, ne è rimasto soltanto uno. Anche da noi il potere era in mano a due correnti. Gli uni avevano uno scudo bianco con una croce rossa e la scritta Libertas in bella vista. Credevano in Dio. Gli altri avevano come simbolo una falce e un martello e credevano in altre cose che allora non capivo, se credevano in Dio non so, si diceva di no, ma qualcuno magari ci credeva, perché no. Quando parlavano riempivano le piazze. Sempre. Eppure chi era più grande di me diceva che le cose non stavano proprio così, che un tempo si che la gente ci credeva e loro stessi ci credevano. Ora, ora no. E poi qualcuno, i più lungimiranti forse, lanciavano un’accusa da fare accapponare la pelle: quelli rubano.
Quando ho compiuto diciotto anni di quei partiti che avevano dominato la scena per cinquant’anni non c’era più l’ombra. Quello strano muro veniva venduto a pezzi e deve essere stato davvero grande perché ancora oggi chi va a Berlino ne acquista un pezzo. I paesi dalle sigle strane erano scomparsi, i temi e le relazioni si battevano a computer, le donnine nude si guardavano su un laptop e non più su carta patinata, gli orsacchiotti (e non solo) arrivavano in container dal lontano oriente. E le compagnie, quei crocicchi di ragazzi e motorini che vedevo agli angoli delle strade, che passavano interi pomeriggi a smezzare sigarette, canne, birre, quelle bande che tanti lutti ai poveri abitanti delle periferie addussero, che ne era stato? Semplicemente di un luogo di ritrovo non ce n’era più bisogno. I telefonini avevano reso la città liquida, avevano abbattuto i confini dei quartieri, i quartieri stessi non erano più espressione di una classe sociale.
Uno schock. Così il debutto dei nipoti della guerra. Spaesati, sfigati, senza un’ideologia a cui aggrapparci. Quelli prima di noi facevano a botte. Tra tifoserie avversarie, tra quartieri limitrofi, tra paesi confinanti. Era il loro modo di sentirsi vivi, di fare l’unica scelta che sembrava a loro possibile: rifiutare tutto. A noi questo non era dato. Se loro videro gli ultimi scampoli di quelle ideologie, di quella società conflittuale eppure coesa, che respirava violenza, ma sapeva ancora riunirsi sotto una bandiera o davanti a un prete, noi non vedemmo nulla di tutto ciò. Tutto quello che era stato negli anni novanta non aveva più senso. Urlare, urlare forte come Kurt Cobain. Oppure l’oblio: la cameretta, la musica elettronica che proprio negli anni novanta avrà il suo apice. Fateci caso: nessuna generazione ha avuto idoli tanto introversi come quella dei novanta: la freddezza dei fratelli Gallagher, il distacco dei Blur, il buddhismo di Roberto Baggio. Perfino i Take That sembrano più dimessi a guardarli accanto ai Duran Duran (prima) e le Spice Girls (dopo).
E a ben guardare furono anche anni belli, importanti. Le ultime scene musicali degne di questo nome, il più bel calcio di tutti i tempi. E la vita, che degli anni precedenti conservava un po’ di sapore e non si era ancora sacrificata al mercato globale, costava poco. Ce ne accorgemmo più tardi, quando la trasformazione era ormai divenuta un processo irreversibile e il mondo aveva definitivamente cambiato i connotati.
Penso che nessuna generazione abbia passato tanto tempo in una cameretta. Aggiungo e correggo: senza un computer a disposizione. Molti in quella cameretta hanno ballato, urlato rigorosamente senza voce, alcuni perfino pogato. La nostra rivoluzione l’abbiamo consumata da soli, precursori di un individualismo in anni successivi divenuto allarmante. Eppure, a differenza di chi venne dopo, eravamo ancora legati a quel mondo di idee e contraddizioni che ci aveva generato. Solamente quel mondo non c’era più e chi ci doveva spiegare cosa sarebbe accaduto ne sapeva quanto noi. Un vuoto quasi esistenziale a cui nessuno poteva dare risposta. Domande nel vuoto che per certi versi ancora aleggiano nell’aria come enigmi irrisolti. Ancora ora che siamo grandi e non sappiamo che fare delle nostre vite. E questa maledetta crisi. Ci fosse almeno un Walkman a portata di mano.