Tu vuoi fare l’Americano, ma sei nato in Italy…e trasferito in Australia
Giovedì, non importa quale, stavo camminando per raggiungere il luogo di incontro per un appuntamento con un potenziale cliente che, se diventasse tale, mi aiuterebbe a mantenere ancora per un po’ quel pseudo lavoro che ho trovato durante la prima settimana di permanenza a Melbourne. Indossavo gli occhiali da sole nonostante il cielo grigio e qualche goccia di pioggia fina, un po’ per la stanchezza per la notte passata quasi insonne, un po’ per gli occhi gonfi da reazione allergica ad ancora non si è capito quale alimento, e un po’ perché tra i pensieri di quel giovedì mattina si era intrufolata una certa tristezza.
Invece di prendere i mezzi di trasporto, tram o metro che sia, per spostarmi da un sobborgo all’altro di Melbourne, ne approfitto spesso per passeggiare. In questo modo risparmio sul costo della Myki card – e non poco – e colgo l’occasione per fare un po’ di moto. Io, bradipo, ne ho bisogno. L’effetto collaterale di queste lunghe passeggiate (non sono solo le vesciche che ormai chiamo per nome sulle piante di entrambi i piedi), ma soprattutto il carico ingente di pensieri, ricordi, speranze, emozioni che si mettono a girovagare per la mente, aggrappandosi al sistema nervoso simpatico e parasimpatico senza il mio volere. E poi scoppio. Tutto questo giro di parole per dire che nonostante la patina scura… anche un paio di occhiali da sole fallisce e non riesce a nascondere le lacrime che bam!, iniziano a fluire a rigoli, come in preda al (credo normale), sfogo della terza settimana: “sono sola”, “cosa ci faccio qui”.
E’ stata tutta colpa di un insieme di argomenti che, in realtà, si era mescolato alla stanchezza e al tempo uggioso, e nonostante la musica nelle orecchie suonasse “there goes my hero, watch him as he goes” e io cercassi di convincermi che un po’ eroina lo fossi anch’io, dati gli sforzi e i sacrifici per volare fino a quaggiù, non è stato abbastanza.
Come un ragazzino che viene punito per un guaio che non ha commesso, mi sentivo delusa e ferita, perché non è giusto che una persona debba fare migliaia e migliaia di chilometri per poter anche solo tentare di trovare un lavoro, la speranza almeno, e condurre una vita decente. Non mi andava bene aver dovuto lasciare di nuovo tutto perché non avevo alternativa dopo aver passato mesi -anzi: anni – a cercare un contratto in quella splendida nazione che tutti invidiano per il cibo e i paesaggi, e che allo stesso tempo sfottono a suon di canzoni intitolate Bunga Bunga. Mi scoccia non essere stata libera di scegliermi un futuro nel luogo natìo, perché non mi viene concesso un lavoro, e se per sbaglio ne trovo uno, dopo poco scade il contratto; odio non aver avuto la possibilità di continuare a studiare perché anche il sistema scolastico è corrotto, di non aver ricevuto aiuto dalle Istituzioni, e soprattutto di non poter nemmeno avere la possibilità di chiederlo, l’aiuto, perché … ma dove accidenti sono poi queste Istituzioni?
Urlo in silenzio stringendo i pugni, portando un passo davanti all’altro e singhiozzando perché, sì, è bello andare in Australia, ma non con il cuore appesantito dalle delusioni di una patria che ti sputa in faccia se hai scelto di studiare Lingue Straniere e che, per quante tu ne sappia, ancora non sono abbastanza per trovare uno straccio di impiego. Per colpa di chi? Eh, mano mia fermati e non continuare a battere su questi tasti prima di combinare guai. Ma tra di voi, pensavo, quelli di voi che hanno una professione lì, a casa, che siete tra i privilegiati che possono permettersi di avere un auto con cui raggiungere il posto di lavoro, che una volta maturati i giorni utili potete concedervi il lusso delle ferie, che per quanto determinato o temporaneo che sia, avete un contratto, co.co.pro, co.co.co e go pro e go-go, dicevo voi, la smettete di lamentarvi? La piantate di venire a dire a noi, che siamo volati da un emisfero all’altro per cause di forza maggiore: “oh ma che bello, che fortunati, lo farei anch’io se potessi” ? Oppure questa: “eh, brava e coraggiosa a partire così! Ti invidio! Mollare tutto e andare!” Ma ti invidio cosa? Mollare tutto, cosa, che non ho niente? Mi invidi che mentre tu a Natale avrai il pranzo in famiglia magari con budget ristretto rispetto agli anni precedenti, ma con i tuoi cari al seguito, io lo passerò a lavorare se sono davvero fortunata, o a continuare a cercare lavoro, da sola, in una città dell’Oceania? Ah, ma sono al caldo, giusto. Sono in Australia e Babbo Natale in surf e bermuda è un fenomeno inimmaginabile da non perdere.
“Non è per lamentarmi, per polemizzare su tutto, come mi ha detto qualcuno in passato”, penso, calciando i frutti caduti da qualche albero pensando a quanto avrei voluto vedere e vivere questo posto, senza esserci dovuta arrivare perché spinta dalla necessità di abbandonare un luogo che a quelli come me non ha più nulla da offrire. Sembra tanto grave e non lo è? Sono io magari, che con i miei occhi da sognatrice vedo ancora più maestoso questo problema? O ci ho azzeccato? Il continuo chiedermi se la gente lì, da dove vengo, si sia resa conto della complessità della situazione però, mi fa arrabbiare. Tanto. Un po’ questo e un po’ quello, e ti credo che poi un misero paio di occhialini da sole non serve a coprire la delusione, la tristezza, l’amarezza e la paura di non riuscire poi nemmeno qui a farcela. Perché in fondo, è la paura di non riuscire nemmeno qui che spaventa tutti. C’è chi arriva con il mito dell’ “arrivo io e spacco tutto!” ma ho quasi la certezza che i tantissimi compagni di avventura con Working Holiday Visa, non siano qui solo perché volevano farsi l’esperienza ganza in Australia.
Parlo per me. Il bagaglio che mi sono portata dietro, purtroppo, mi ha segnata così. E’ pieno di corde, pronte ad essere lanciate in stile cowboy, mirando i piedi, o le zampe, per catturare animali in corsa, annodandosi sulle caviglie. La lezione ormai è stata imparata a memoria: tu comincia a correre che tanto prima o poi ti arriva la frustata. Oppure, hai raggiunto un obiettivo: congratulazioni. Peccato che non ti serva a nulla. La prossima volta che mi chiederanno da dove vengo, risponderò che vengo da un paese che ti insegna a non gioire dei risultati ottenuti, perché tanto dietro l’angolo ti aspetta qualcosa a farteli ingoiare amaramente. Ti insegna che il mondo è dei furbi e dei disonesti e che se vuoi qualcosa, non la otterrai mai se quello con più faccia tosta della tua, se la prende per primo. Non è per fare la disfattista o la negativa. Suvvia! Se qui in Australia ci sono ricercatori che stanno studiando la Terza Ondata di Italiani, di cui io ne faccio ormai parte, è perché non è così scontato che una intera generazione di giovani parta in massa alla ricerca di una vita che valga la pena di essere vissuta. Noi non veniamo da un dopo-guerra, ragazzi! Dovremmo avere sogni e speranze, non paure e zero alternative locali. La signora che mi stava parlando poco fa, diceva qualcosa del sogno con cui era partita da casa, non perché lì da noi non ne avesse la possibilità, ma perché al suo tempo, “si faceva così, per cambiare”, mi ha confidato. Qui gli Italiani della prima e della seconda ondata non capiscono perché stiamo approdando qui come gli orsi alla ricerca del miele. “Ma essa è venita a qui perché inn Italia ci sta nu bordello, o pecché vuleva a vedere l’Ostralia?” “ Eh no signora, sono qui con la speranza di condurre una vita che lì non sembra essere possibile” “uh, allora ci stanno probblemi seri all’Italia? Eh, ma pecché ora arrivate tutti qui, ma anche a qui no ci sta più quello che ci stava na volt, qui s’ha da proccupars, questi vengono e si credono che trovano all’America!”
E allora, adesso, come la mettiamo?